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Djokovic fuoriclasse di masochismo, pure i no vax lo hanno abbandonato (“s’è fatto umiliare”)

Ha pietito il suo posto agli Australian Open fino all’ultima udienza. L’opinionismo mondiale ha rovistato nella sua vita, e ora la sua immagine è rovinata

Djokovic fuoriclasse di masochismo, pure i no vax lo hanno abbandonato (“s’è fatto umiliare”)
Londra (Inghilterra) 01/07/2018 - Wimbledon / foto Antoine Couvercelle/Panoramic/ Insidefoto/Image Sport nella foto: Novak Djokovic ONLY ITALY

Né santo né santone. Manco martire. Novak Djokovic s’è infilato una decina di giorni fa in una “walk of shame”, come la chiamano gli inglesi: una sfilata della vergogna, in cui tu passi e la gente tutt’attorno sputa e inveisce. C’era entrato da semi-leggenda del tennis, il numero uno un po’ naif. Ne esce senza nemmeno l’etichetta di talismano dell’indecenza, il no-vax più celebre del pianeta. Un campione ribaltato dalla stessa noncuranza con cui sperava di imporsi oltre le leggi d’un Paese straniero, ma ancora peggio: contro gli interessi della politica in anno elettorale. Un mostro finale che nessuno sano di mente ambirebbe a combattere. Il risultato è che Djokovic, in preda ad un crisi quasi psicotica di masochismo, s’è rovinato deliberatamente da solo. Mentre il mondo scopriva quanto fosse deteriore tutto il pregresso, magari finora nascosto nella nicchia tennistica: l’ultranazionalismo folkloristico della sua famiglia, il polpettone mistico delle sue fissazioni, l’anti-scientismo con cui ha affrontato due anni di pandemia.

Dieci giorni di opinionismo perpetuo hanno scavato dappertutto, non lasciando nulla al non-detto. Alcuni temevano che l'”accanimento” del governo australiano producesse il contraccolpo ideologico, trasformando un campione mondiale in eroe anti-vaccinale. Quel fronte si nutre del complottismo spicciolo, l’occasione di potersi giocare la carta Djokovic era ed è enorme. Ma lui no, ha tradito anche l’integerrimo ordine degli anti-tutto. Perché è rimasto lì a pietire il posto agli Australian Open, fino all’ultima arringa dei suoi avvocati. Ha affrontato quello che il suo collega tennista-novax Sandgren ha definito “un rituale d’umiliazione” con spirito collaborazionista. Nell’ultima udienza il suo legale s’è spinto a rinfacciare al governo che Djokovic “non ha mai apertamente criticato i vaccini”, sfidandolo: “Perché non glielo avete chiesto adesso cosa ne pensa?”. Come a voler suggerire una resa condizionata. Avrebbero magari potuto trattare una dichiarazione d’intenti per salvare capra e cavoli. Solo che gli australiani c’hanno i canguri, e ai confini (di principio e geografici) ci tengono un po’. Morale: Djokovic ha perso, su tutti i fronti.

In questi giorni c’è stato il tempo di ravanare nella storia per rintracciare qualche precedente. L’Équipe ricorda che nel 1974 Jimmy Connors venne espulso con Evonne Goolagong dal Roland-Garros per una controversia con la federazione francese. Era nato un circuito alternativo, loro avevano aderito e la faccenda stava finendo in tribunale. Connors venne escluso dallo Slam cinque giorni prima dell’inizio del torneo e non sarebbe più tornato in Francia per cinque anni. Djokovic rischia tre anni di “ban” dall’Australia.

Altri, con sprezzo del pericolo, avevano paragonato la battaglia di Djokovic a quella di Cassius Clay (all’epoca ancora si chiamava così, Muhammad Ali) che mise in gioco reputazione e carriera per opporsi alla guerra del Vietnam. Djokovic è andato alla guerra per opporsi ad un vaccino che salva la vita a milioni di persone. Coerente il finale: a uno la gloria, all’altro l’onta.

Ma è chiaro che invece i riferimenti adeguati alla vicenda sono usciti tutti dalle allegorie del suo clan: Gesù Cristo crocifisso, Spartaco, cose così. Ampiamente fuori dal pantone della logica, in linea con l’isteria diplomatica che ha governato le reazioni in quest’ultima settimana. Ed è in questo contesto quasi fumettistico che s’è perso l’onore di Djokovic. Ha scelto di abitare un altro pianeta, ma nel frattempo non è riuscito a farsi testimonial di quella sorta di opposizione macchiettistica che lo voleva leader d’una rivoluzione.

Avrete ascoltato in questi giorni il silenzio assordante dei suoi sponsor. Il Sole 24 ore ha stimato che il prossimo anno potrebbe perdere non meno di 30 milioni di euro di sponsorizzazioni. Il commento del Sole è azzeccato: “Dopo aver speso fior di milioni per allineare il loro brand a un lifestyle desiderabile, a uno sportivo di successo, a un professionista stimato, oggi si ritrovano ad aver sponsorizzato Pippo Franco”. Lo stacco di credibilità, mentre il suo aereo lo riporta in Europa, è tutto qua.

Djokovic s’è rappreso. Ha ammesso qualcuno dei suoi errori più marchiani, altri li ha lasciati in carico al suo entourage. Ha annaspato, nell’incubo di tutti i pr: né di qua, né di là. Solo e soltanto paccheri a destra e a manca. Lo avevano cantato come l’uomo arrivato in Australia a combattere l’ingiustizia, l’ipocrisia e per qualche ragione pure il colonialismo. E’ stato ruminato dal circo dei media, lui e le sua bolla di accoliti e supplicanti. L’Australia, una nazione insulare vasta, polverosa e atomizzata da due anni di isolamento estenuanti, affaticata, l’ha preso di petto. Lui e le sue fisime sul potere mentale disintossicante. Depurasse l’acqua con le preghiere a casa sua. Sconfitto, con ignominia. Non c’è di peggio, per uno sportivo.

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