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Vincere, in fondo, è sopravvalutato. Spalletti ce lo ricorda citando Sepúlveda

È uno slogan. L’infinito di un verbo. Spalletti, prima di Napoli, era considerato un perdente. Come Ancelotti alla Juventus. E tanti altri

Vincere, in fondo, è sopravvalutato. Spalletti ce lo ricorda citando Sepúlveda
Andrea Renzi ne L'uomo in più di Paolo Sorrentino

Nella vita non esiste pareggio

«Ho perso. Ho sempre perso. Non mi irrita né mi preoccupa. Perdere è una questione di metodo.»

Spalletti, nell’intervista concessa al direttore Ivan Zazzaroni sul Corriere dello Sport, ha citato Luis Sepúlveda. Assieme a un noir in lingua spagnola. Senza accorgersene, probabilmente.

«Sia la vittoria che la sconfitta sono lo stesso impostore. Perdere induce a riflettere, a ragionare sugli errori commessi per tentare di non ripeterli più. Vincere può distrarti dall’obiettivo, dalle cose che succedono durante il percorso. Le cose dell’anima, i sentimenti… Se il giorno dopo ti fermi alla vittoria non migliori, non cresci».

Una volta esistevano i dvd. Sulla copia de “L’uomo in più”, alla voce “selezione scene” (i famigerati capitoli) faceva capolino un frame intitolato “Tra incomprensioni e umiliazioni”. Allude al cantante protagonista del film che perde per via di uno “scivolone” la propria reputazione. E allo stopper che al contempo per una scivolata chiude in anticipo la carriera. Finendo con l’umiliarsi. Perché, dopo, nessuno lo lascerà allenare nemmeno uno straccio di squadra. Così, facendo finta di andare a visionare un giocatore olandese, Toni Pisapia (quello coi baffi) si spara all’aeroporto di Capodichino. Prima della rivoluzione… tattica. L’esordio di Paolo Sorrentino, nella fattispecie, non allude(va) a tecnici vincenti o popolarissimi quali Arrigo Sacchi e Zdenek Zeman. Bensì allo “schema a quattro punte” applicato da Ezio Glerean col Cittadella. Uno che da calciatore ha giocato a Bassano del Grappa piuttosto che a Cava de’ Tirreni. E da allenatore al massimo è approdato in Serie B. Dove, tra l’altro, sarà sempre esonerato.

«Io non so allenare il cinismo. Allenare per me significa voler bene al calciatore, saperlo difendere, aggiungergli qualcosa. Esiste il calciatore timido che non riesce a esprimere totalmente il proprio potenziale e allora intervengo con il lavoro. Con l’esercizio cerco di portare il timido nella condizione ideale per alzare il livello del rendimento. Non riesco a fare niente in superficie. Il primo anno a Napoli vivevo in albergo, magnifico, mi portavano la colazione in camera. Poi ho piazzato il lettino nell’ufficio. Per non perdere un solo secondo, anche il più piccolo particolare, mi risparmiavo la mezz’ora di auto da Napoli a Castel Volturno».

L’attuale selezionatore della Nazionale, fino allo Scudetto partenopeo dell’anno passato, era ritenuto da stampa e pubblico un perdente di lusso. Categoria della quale per un discreto periodo hanno fatto parte tantissimi suoi colleghi di prestigio. Persino Carlo Ancelotti. Cacciato in malo modo dalla Juve. Appellato “maiale” da una frangia della stessa curva sabauda che gli rimproverava due secondi posti di fila in campionato. Però, Luciano da Certaldo, luogo natio di Boccaccio in provincia di Firenze, ha certificato qualcosa che nessun predecessore poteva mai supporre. Specialmente oggi, nel 2024: il concetto (autentico) di stima urbi et orbi. Oltre ogni effimero e momentaneo risultato situazionista.

L’effetto (domino) che ne consegue è assai positivo, dunque. Meglio ancora, è sovversivo. Il tifoso, adesso, al netto delle inevitabili isterie da bar è consapevole. Sostiene un coach (con e) per le idee. Sa che può far crescere sul serio un ambiente. Gli atleti, in fondo, sono dei ragazzi. Ricchi, immaturi, soli. Se li valorizzi davvero lo scambio diventa reciproco. Anche i super club (almeno qui in Italia) hanno imparato l’importanza di reinventarsi. Trasformarsi in provincia. Forse, per un allenatore che se ne va sbattendo la porta perché non gli comprano i calciatori migliori ce ne sono altrettanti bravi a migliorare quelli che hanno. Eccola l’onda lunga dei cinque piazzamenti in Champions. Se l’Europa League andrà come tutti auspicano potrebbero aumentare addirittura a sei.

«Non è detto, poi, che, facendo le stesse cose, si possano ottenere identici risultati. Decisivo è il modo in cui riesci a relazionarti con i giocatori e i collaboratori, quanto sei in grado di renderli doppiamente forti e parte della stessa storia: uno più uno più uno al cubo insomma. Abbracci, sentimenti, solidarietà, capacità di coinvolgimento, tanto dipende da come si vivono i differenti momenti. Il calcio è semplice, ma non è semplice.»

Dopo un Roma-Samp di otto stagioni orsono circolava un mantra. Sembrava quasi una boutade. «Uomini forti, destini forti. Uomini deboli, destini deboli». Rischiava la caricatura affettuosa. In una fiction salvata dall’interpretazione di un bravissimo Gianmarco Tognazzi era evidente l’effetto. Invece “il tempo è un gran dottore”, diceva una canzone. Con buona pace dell’immenso Totti, dei fortissimi Icardi e Insigne, conta la distanza. Dai traguardi, intanto. Poi, dall’equilibrio personale e circostante. I trattori rappresentano efficaci cartine di tornasole. Le Porsche no. La metafora applicata all’esistenza quotidiana rende (finalmente) giustizia a uno sport che gli appassionati, già in età adulta, potrebbero relegare ai cosiddetti momenti di trascurabile felicità. Nel dubbio basta chiedere agli scrittori Premio Strega.

Vincere, in fondo, è sopravvalutato. È uno slogan. L’infinito di un verbo. I pullman scoperti paralizzeranno le città in qualsiasi primavera. Le vittorie resteranno solo per quelli che insegnano e imparano a campare. Quel romanzo cileno del ’94 dà il calcio d’inizio con una schicchera. La citazione di un argentino desaparecido. Omonimo di campioni del mondo nati a Nettuno. «Prima o poi la vita mi si metterà davanti e balzerò per strada. Come un leone».

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