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Bollesan a Napoli / 1 «Mi hanno insegnato che devi essere sfaccimme nella vita»

Il capitolo napoletano, con la Partenope, del libro del grande rugbista scomparso: Elio Fusco, l’Italsider, «mi hanno fatto scetare, ci ho messo poco»

Bollesan a Napoli / 1 «Mi hanno insegnato che devi essere sfaccimme nella vita»

Proponiamo, a puntate, il capitolo dedicato a Napoli del libro “Una meta dietro l’altra” (edizioni Limina) di Marco Bollesan  grande rugbista recentemente scomparso. Bollesan ha giocato quattro stagioni a Napoli (dal 65 al 69), con la Partenope, e ha vinto anche uno scudetto il secondo della società. napoletana. 

Io non me la sentivo di tornare in B, e visto che la Partenope, da tempo, mi cercava, decisi di accettare e di trasferirmi a Napoli. Anche perché Elio Fusco, col quale in Nazionale avevamo già un buon rapporto, e che di quella Partenope che aveva appena vinto lo scudetto era, oltre che il mediano di mischia, anche l’anima (di ferro), mi disse che se avessi accettato di giocare con loro, avrebbe fatto in modo di farmi trasferire all’Italsider di Bagnoli, e soprattutto mi avrebbe fatto avere la qualifica di impiegato.

«Belin, Elio, per avere la qualificato di impiegato bisogna almeno essere diplomati, e io un diploma non ce l’ho».

E lui, con la sua aria da furbo, da quello che sapeva cosa fare e come farlo, mi rispondeva: «Tranquillo, Marco, stai tranquillo, pensiamo a tutto noi. Tu non ti preoccupare. Devi soltanto dire sì». E io dissi va bene, perché io non mi faccio dettare le risposte da nessuno. Neanche da chi mi promette uno scatto di carriera che per me, fino a quel momento, era impensabile. E non è che ci credessi tanto, ugualmente. Fino a quando mi chiamarono all’Italsider. Incontro un dirigente che mi dice: «Signor Bollesan, qua mi comunicano che lei sarà trasferito a Napoli con la qualifica di impiegato di primo livello. Vuole trasferirsi?». L’ho guardato un po’ stranito, e anche lui non sembrava molto convinto, ma l’occasione non potevo perderla, e allora ho risposto che certo, sarei andato a Napoli. Però mi dovevo anche sposare., e allora anticipammo il matrimonio per riuscire a fare tutte le cose in tempo prima di cambiare aria, vita, tutto.

Fu così che cominciarono i miei quattro anni a Napoli, o meglio, a Bagnoli, perché avevamo preso casa lì (all’inizio non avevamo casa, avevamo una stanza in affitto, poi ci procurarono una casa, e poi, con l’aiuto dei genitori di Mariangela, decidemmo di fare un investimento, e una casa la comprammo, anche se prima di entrarci dovemmo aspettare che finissero di costruirla), vicino allo stabilimento dove diventai anche caporeparto. Ma questo ve lo racconto dopo.

Quattro anni alla Partenope sono stati intensi, belli, ricchi di rapporti personali, e anche di crescita importante nel mio rugby. Perché, diciamocelo chiaramente, fino a quel momento il mio gioco era gli autoscontri, e bum e bum, giù cornate, per passare, e siccome ero il più arrabbiato di tutti, spesso passavo. Ma a Napoli ho imparato che se un muro non lo puoi abbattere a testate, invece di continuare a spaccarti la testa magari puoi girargli intorno. Ho scoperto che c’era anche l’inventiva, l’improvvisazione, utili magari per uscire da qualche situazione intricata. Strada chiusa? E oplà, palla passata dietro la testa, e se non la prendevi ti invitavano a scetarti. Ma che ne sapevo io, che si poteva anche giocare così? Ma non ci ho messo tanto a scetarme. E quello era il gioco della Partenope di Elio Fusco.

Elio, nel suo campo, era un genio, era capace di invenzioni estemporanee, di furbate che non credevi possibili, e invece lui le realizzava. In quegli anni c’era un solo arbitro a dirigere le gare, i guardalinee erano uno ciascuno tra i dirigenti o gli accompagnatori delle due squadre. E allora, spesso, al momento della mischia chiusa, se l’arbitro era dall’altra parte, lui non introduceva neanche il pallone: faceva finta. E in un attimo il gioco era aperto dai piedi della terza centro, cioè il sottoscritto, e la pressione avversaria, così, gli faceva letteralmente fresco. Provavano a protestare, ma il rischio era anche quello di passare per fessi, e così Elio ogni volta la faceva franca. Perché come dicevano loro, devi essere un po’ sfaccimme nella vita. E questa per me è stata una grande lezione.

Ma non era solo astuzia, quella Partenope. Era anche la forza di un pilone come Franco Ascantini, e degli altri ragazzi della mischia, colossi come i fratelli Digiovanni e Gelormini, e poi anche Chiattilla Silvestri, tallonatore. Lo chiamavano la piattola perché se ti capitava vicino non ti mollava più: parlava sempre, in continuazione, e cambiava argomento ogni tre secondi, e ti asfissiava con mille domande, e mille perché. Non la smetteva mai: da qui il soprannome.

Il primo anno che sono arrivato a Napoli, devo ricordarlo, loro erano già i campioni d’Italia, e noi si giocava con lo scudetto sul petto. Bello, però non era mio. Ne volevo uno anche per me. E quell’ano, infatti, replicammo. Con un gioco arioso, aperto, come all’epoca si vedeva raramente. In quello che adesso si chiama triangolo allargato, ma che se qualcuno lo avesse chiamato così allora avremmo pensato solo alla geometria, e che era, come minimo, un mezzo pazzo, c’erano Ambron e Carlotto alle ali, e ‘o Dottore ad estremo. Lo chiamavano così, Marcello Martone, perché di lavoro facevo quello: il dottore. All’apertura Mimmo Augeri, che invece era avvocato. E io, che avevo fatto solo l’avviamento, e poi mi ero iscritto al Nautico, ma senza finirlo, ero la terza centro: per me il rugby è stato acculturante, mi ha permesso di parlare da pari a pari con gente che aveva studiato, e non sembravo neanche il più scemo. Mi piace ricordare anche Rino Carboni, era ufficiale nell’aeronautica. Un ragno di merda, rideva sempre ma era un placcatore terribile. Placcava tutti, placcava anche noi. Lo chiamavamo il Mastino, perché ti si attaccava alle caviglie e non ti mollava più. Mi si era affezionato, mi invitava a mangiare in mensa nella loro caserma, sopra a Posillipo, e quando entravo con lui tutti sull’attenti. Non per me, naturalmente, ma la cosa mi faceva sempre un po’ impressione. (1 – continua)

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