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L’aumento di stipendio all’Italsider e con Bollesan la Partenope Rugby vinse il secondo scudetto

Così fu strappato alla sua Genova (lavorava già all’Ilva) il grande rugbista scomparso. Era il 1966. Al Collana in diecimila seguivano quella squadra

L’aumento di stipendio all’Italsider e con Bollesan la Partenope Rugby vinse il secondo scudetto

La storia è cominciata così. Marco Bollesan, ragazzone di Chioggia, muscoli e aggressività, lavorava come caporeparto all’Italsider genovese di Cornigliano dopo essere stato garzone di un fruttivendolo. Erano gli anni Sessanta. Il rugby era stato, a diciotto anni, lo sfogo della sua esuberanza che, da ragazzo, aveva sfoggiato nei caruggi dell’angiporto di Genova. Scazzottate memorabili. “Roba da cinema” raccontò un giorno.

Figlio di un venditore di macchine per ingranaggi, il rugby e l’Italsider erano la sua vita. Lo sport il campo di lotta e sofferenza per la sua indole di guerriero. Era stato canottiere a Sabaudia durante il servizio militare. Era stato giocatore di pallanuoto nel Sori. Rugbista nel Cus Genova mentre lavorava a Cornigliano.

A metà degli anni Sessanta, a Napoli eravamo dei polisportivi, non c’era solo il pallone. La pallanuoto era la regina delle estati. Furoreggiava il basket in serie A, lanciato verso la conquista di una Coppa Italia e di una Coppa delle coppe. Il rugby, ah il rugby, così lontano dai campi fangosi del mitico triangolo veneto, Padova, Treviso, Rovigo, di cui nei miei tempi al “Guerin sportivo” raccoglievo i racconti di Giuseppe Tognetti, il dentista bolognese cantore della pallaovale, il rugby a Napoli aveva appena vinto un mitico scudetto.

Era il 1965. Nel calcio arrivavano Altafini e Sivori. Nel rugby, Elio Fusco mediano di mischia passato ad allenare la Partenope Rugby, era professore di tattica. Poiché c’erano sempre cento chili di svantaggio con le più robuste formazioni venete puntò tutto sulla velocità e l’agilità. Furono le armi vincenti di un rugby solare.

La Partenope campione d’Italia 1965 era una gran famiglia di professionisti nelle arti e nei mestieri della vita. Fusco giocatore e allenatore, il medico Marcello Martone “piedino d’oro” per la capacità di infilare il pallone tra i pali, Vittorio Ambron di una famiglia beneventana di sportivi, l’avvocato Mimì Augeri, Franco Ascantini, Vincenzo Trapanese, Silvestri, De Giovanni, Vellecco, De Falco, D’Orazio, Carbone, Rodà, Grandoni, Siano.

Per la stagione successiva, l’ingegnere Arnaldo Mancinelli, direttore dell’Italsider di Bagnoli e consigliere della Partenope, ebbe un’idea geniale: portare a Napoli Marco Bollesan che aveva esordito in nazionale due anni prima in una leggendaria partita dell’Italia a Grenoble contro la Francia (c’era anche Elio Fusco). A Bollesan fu proposto il trasferimento all’Italsider di Napoli con aumento di stipendio che Marco accettò al volo.

Arrivò alla Partenope un rugbista di tante cicatrici e un ragazzone abbronzato di tanti chili con una voce rauca e la cadenza genovese, formidabile istrione. Raccontò i primi otto punti di sutura alla fronte. “Avevo 18 anni e mi proposero di provare al Cus Genova. Al primo allenamento in palestra volai per un placcaggio che fallii finendo contro un termosifone spaccandomi la fronte”.

Ne aveva da raccontare Marco Bollesan che disse: “Sono diventato rugbista perché so muovere le mani”. Le mani delle celebri scazzottate nei carrugi di Genova. Diceva: “Il rugby è una guerra, l’avversario è un nemico, devi buttarlo giù per vincere”. Aveva una bella faccia da film western. Raccontò: “Ho giocato a pallanuoto contro Eraldo Pizzo, giocavo nel Sori. Con Pizzo e il calciatore Oscar Damiani mettemmo su un’azienda di costumi da bagno, regolarmente fallita. Ci rimettemmo tre milioni a testa”.

Marco Bollesan fu la terza linea della Partenope campione d’Italia 1966. Il campionato si concluse allo Stadio Flaminio di Roma contro l’irriducibile squadra della capitale. Un romantico reportage di Lello Barbuto su “Il Mattino” ne immortalò la sera di metà maggio. “Rose rosse e berretti bianchi per festeggiare il secondo scudetto”. Le rose le lanciarono le ragazze al seguito delle due squadre, i berretti bianchi erano di una cinquantina di marinai travolti dall’entusiasmo. Al Flaminio c’erano dodicimila spettatori. Al Collana, su al Vomero, ce ne erano sempre diecimila per la Partenope dei due scudetti.

Bollesan aveva 25 anni e vinse con Fusco, Martone, Augeri, Ascantini, Ambron, Perrino, Siano, Vellecco, De Falco, D’Orazio, Carlotto, Grieco, De Giovanni, Raffin, Silvestri, Carbone, massaggiatore memorabile Peppino Cuomo.

Raccontava, Bollesan, il giorno di Grenoble quando la nazionale italiana sfiorò la vittoria contro la Francia perdendo all’ultimo minuto. “I francesi picchiavano come fabbri, io me la cavai con uno squarcio a uno zigomo per il cazzotto che mi rifilò Michael Crauste, terza linea della Francia, soprannomiato il mongolo”.

Sulla Partenope Rugby Adriano Cisternino ha realizzato un bel volume illustrato con gli articoli di Franco Esposito, Marco Caiazzo, Clemente Hengeller e Giustino Fabrizio che giocò a rugby alla fine degli anni Sessanta e in campo andava anche Peppe D’Avanzo l’indimenticabile giornalista de “La Repubblica”. Sullo stesso giornale Corrado Sannucci è stato un appassionato cronista di rugby.

Dopo tre anni a Napoli, Bollesan rientrò a Genova, andò poi a Brescia a vincere lo scudetto con la squadra lombarda nel 1975. Finì all’Amatori Milano. E’ stato poi allenatore della nazionale italiana. Qualcuno ha calcolato che il rugby gli abbia lasciato 164 punti di sutura. Diceva: “Addosso ho più punti di un tailleur”.

Marco Bollesan si è spento l’altro ieri a Bogliasco in una casa di riposo. Aveva superato il Covid. Avrebbe compiuto 80 anni il prossimo 7 luglio.

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