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Oggi cosa succederebbe a Pacileo per il tre e mezzo a Maradona?

L’unico metro accettato è quello della faziosità. Abbiamo perso per colpa dell’arbitro e Gattuso ha ragione. Se non lo dici, sei anti-napoletano

Oggi cosa succederebbe a Pacileo per il tre e mezzo a Maradona?

In principio, fu Gonella. Quella volta a giusta ragione. E tra le giuste ragioni c’è anche Orsato. In mezzo, però, e veramente anche di lato, sopra, sotto, c’è un elenco sterminato di arbitri, arbitraggi, guardalinee, quarti uomini, addetti al Var, che hanno impedito al Napoli di trionfare come avrebbe meritato. L’ultimo è stato il signor Massa reo, mercoledì sera, di aver espulso Insigne che lo ha mandato a cacare (noi lo scriviamo con la c), come da ammissione di Gattuso e tanto di scuse di Insigne all’arbitro.

A caldo, Gattuso si è battuto per il libero vaffa in libero stato. Quando lo diceva Beppe Grillo, i benpensanti gridavano – non senza ragioni, visto com’è andata – al malcostume che avrebbe impuzzolentito le istituzioni. Lo dice Gattuso da allenatore del Napoli e da queste parti è tutto uno scappellarsi. Perché anche Gattuso alla fine è caduto. Non poteva essere altrimenti dopo un anno di Napoli. Alla fine, “il mondo ce l’ha con noi. Diamo fastidio” e via discorrendo ti entra dentro e ti corrompe.

Siamo certi che Gattuso, una volta sbollita la rabbia, sia tornato in sé (la Gazzetta scrive che si sia pentito di quel post-partita). Anche perché, immaginiamo, il figlio potrebbe averlo accolto esultando: “E vai papà, allora alla prossima mando subito affanculo l’arbitro”. Perché è anche vero quel che l’allenatore ha detto. E succede. Anche ai nostri. Chissà quante volte i calciatori del Napoli hanno mandato a quel paese l’arbitro senza essere stati espulsi. Mercoledì sera, non è accaduto. Ciò non toglie che il campo di gioco debba diventare vaffa-free (come ha splendidamente ricordato oggi sul Corriere della Sera Paolo Casarin).

Quel che è successo mercoledì, ha però anche una spiegazione. È figlio di scelte aziendali. Insigne è stato espulso a Milano come due anni fa, quando ci fu il caso Koulibaly-Mazzoleni. Gattuso ha fatto della restaurazione il principio guida della propria avventura a Napoli. Ibrahimovic avrebbe alterato i meccanismi nel mitologico spogliatoio. E queste sono le conseguenze (è il principio della Fiat Uno Turbo). Insigne è Insigne. Nel bene e nel male. Come ormai sanno anche le pietre, visto che lo conosciamo da dieci anni. Non è che gli altri allenatori non si siano accorti del fuoriclasse. Semplicemente, il fuoriclasse non c’è (poi anche i fuoriclasse sbagliano, sia chiaro). C’è un buon giocatore con i suoi momenti sì e i suoi limiti. Quindi, estremizzando ma non troppo, quel che è successo mercoledì sera lo ha voluto Gattuso.

Fa tanta scena lasciare Ghoulam e Mario Rui in tribuna, fare il duro con Allan (autore di una stagione fin qui strepitosa all’Everton, ora si è infortunato), o con Lozano dipinto come uno che non si reggeva in piedi quando invece è un signor giocatore (bastava metterlo in campo). Gattuso, uomo di profonda intelligenza, queste cose le sa. E le sa bene. Ha scelto di interpretare un copione. E il copione scelto può portare a quello che abbiamo visto mercoledì.

Stamattina leggiamo su Repubblica che il tecnico avrebbe fatto i complimenti alla squadra, la partita ha dimostrato che il Napoli può battersi contro chiunque. E noi trasecoliamo. Vorremmo dare le testate nel muro.

Una squadra che ha battuto due volte il Liverpool, che aveva quasi vinto col Psg, che è ai vertici del calcio italiano da dieci anni, che due anni fa è andata vicinissimo allo scudetto, che ha nel curriculum una semifinale di Europa League, ha capito il suo valore perdendo contro l’Inter che non ha fatto un tiro in porta? Con la rosa più completa dell’era De Laurentiis? Stiamo scherzando?

Stiamo sempre a recitare il ruolo degli emarginati, dei cafoni che vanno a Milano con la lanterna della speranza. Questo poteva essere vero dieci anni fa, con Aronica Grava e Paolo Cannavaro. Non oggi. Basta con questa litania della modestia. Non porta da nessuna parte. È una palla al piede. Molto ma molto più degli arbitraggi. È solo un paravento per calciatori e allenatore.

A proposito della partita di Milano, la domanda da porsi è un’altra: com’è possibile che eravamo sullo zero a zero contro una squadra cui, con un uomo in meno, avremmo potuto segnare quattro gol? Di questo non si parla. Si preferisce parlare dell’arbitro. Lo diciamo noi che abbiamo elogiato la partita del Napoli. Perché abbiamo giocato bene. Ma abbiamo perso. E non per colpa dell’arbitro.

La sensazione è sempre quella dei cani di Pavlov, non solo per Mughini, Cruciani e compagnia. Si accende la luce e noi abbaiamo perché abbiamo fame. Lavezzi sputa e viene squalificato? E noi abbaiamo. Higuain viene espulso a Udine e si fa prendere da una crisi di nervi? E noi abbaiamo. Perdiamo la testa a Firenze? E noi abbaiamo. Potremmo continuare all’infinito. Tutto va nella direzione della de-responsabilizzazione.

Diceva Ottavio Bianchi, allenatore che ha avuto qualche merito in questa città, che se a Napoli concedi un alibi, è finita. E ai tempi di Bianchi, Napoli era una città completamente diversa. Gli intellettuali, ma anche i giornalisti, non venivano neanche sfiorati dall’idea di ingrossare il fiume della protesta basata essenzialmente sul vittimismo cronico. Adesso è tutto cambiato. Il pubblico viene inseguito. Con buona pace delle analisi critiche. Non riusciamo neanche lontanamente immaginare cosa sarebbe di Pacileo se desse oggi 3,5 in pagella a Maradona. Il principio del giornalismo di un tempo è ormai carta straccia. Più blandisci la massa, più ottieni consenso. L’unico metro accettato è quello della faziosità (come spiegato bene da Sconcerti su La Lettura). E della difesa del territorio. Altrimenti sei: anti-napoletano, juventino, prezzolato e chissà cos’altro. Nessuno si tira fuori, in nome del principio che “ce l’hanno con Napoli”. È lo stesso principio dello sportello comunale “difendi la città”.

E, ahinoi, andrà sempre peggio. Abbiamo decisamente superato il momento ben descritto da Paolo Sorrentino in This must be the place.

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