Sei nato di domenica, non poteva essere altrimenti. Ti abbiamo amato soprattutto per la tua vita disperata, felice e disperata come sa essere Napoli
Diego, Dieguito, pibe, estro e perdizione, nato povero e smarrito nella ricchezza, ribelle e vinto, vincitore e perseguitato, il più grande talento del calcio e il più grande autolesionista del mondo.
Ti abbiamo ammirato sull’erba dei ghirigori col pallone fatato, con te abbiamo vinto, ma ti abbiamo amato soprattutto per la tua vita disperata, felice e disperata come sa essere Napoli, perseguitata e invidiata, però mai domata, viva, allegra, ribelle. Tu eri Napoli, ribellandoti a tutte le ingiurie che pativamo. E Napoli era te, dannata e felice.
Qui hai vissuto la tua vera vita. Qui sei diventato Maradona, lo splendore di un piede mancino e la miseria di un vizioso senza scampo, il calciatore più forte del mondo e l’uomo più debole della Terra, il ragazzo che toccò il settimo cielo e finì nel nono cerchio dell’inferno fra i giganti ribelli.
Sei stato il messaggero speciale di tutti gli splendori e le miserie dell’universo, la felicità e l’infelicità insieme, la gloria e la polvere, l’ascesa e la caduta, la vittoria e la resa. La tua vita da romanzo. La tua vita esagerata, grande nelle vittorie e nelle sconfitte con la fierezza di quel marchio indelebile della tua nascita, la povertà di Villa Fiorito alla periferia di Buenos Aires. Leale con tutti, sleale con te stesso, cuore puro e impuro, istintivo, generoso, impunito e punito.
Correvi sul campo con le ali di Mercurio e della fantasia. Hai volato sul mondo con le ali di Icaro, ancora più fragili le tue ali, disciolte e bruciate dal fuoco di una seduzione artificiale e di una illusione traditrice, la tua Dama Bianca.
Nascesti alle 7,05 di una domenica, ed era il 30 ottobre 1960, e in nessun altro giorno potevi nascere tu che sei stato il re e l’incantatore di tante domeniche, predestinato alla gloria del pallone, quel primo pallone di tuo cugino Beto che inseguivi a cinque anni e già lo domavi perché avevi il dono divino di domarlo.
Eri il bambino di Villa Fiorito, povere case (se case potevano chiamarsi) tra le vie Azamor e Mario Bravo che erano strade sterrate, e tiravi il filo di aquiloni colorati, e inseguivi le corse dei treni lungo la scarpata come tutti i bambini di quella periferia bonaerense. Mamma Tota riservava a te, fra sette figli, la bistecca solitaria di quei tempi grami. Papà Chitoro lavorava duramente allo stabilimento chimico di Buenos Aires. Nella tua casa di lamiere e mattoni, nonna Salvadora fumava la pipa.
E venne il giorno che un cineoperatore arrivò a Villa Forito perché si sapeva di un bambino prodigioso col pallone, e l’operatore ti disse “nigno, palleggia finché puoi” e fu il giorno che arrivasti al duecentesimo palleggio senza far toccare terra al pallone, e avresti continuato col tuo piedino mancino e fatato, ma il cineoperatore disse basta, aveva finito la pellicola di registrazione.
(2 – continua)
Dieu est mort. Diego, non eravamo mai stati così felici