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Il Washington Post: l’Italia ha 700 morti al giorno, e pensa al cenone di Natale

La nostra repulsione fisiologica alla continenza sociale è ora su uno dei più autorevoli quotidiani del mondo: due mesi a pentirci delle riaperture in estate, e siamo punto e d’accapo

Il Washington Post: l’Italia ha 700 morti al giorno, e pensa al cenone di Natale

Nella cappella di un obitorio dell’ospedale di Napoli, un prete passa le mattine a recitare i nomi dei morti, pensando a come i corpi ancora positivi finiscano “nei sacchi come soldati”.

Il Whashington Post piazza quest’immagine in apertura del pezzo che dedica alla seconda ondata italiana, quella con 700 morti ogni giorno tutti i giorni, percepiti zero. E’ un articolo sulla percezione, infatti. Sull’Italia che “sta diventando emblematica di uno stadio, molto diverso, della pandemia, nel quale i pericoli persistono senza sosta ma tantissimi sono ormai desensibilizzati, stanchi e preoccupati per la sopravvivenza economica”.

E’ troppo anglosassone il Whashington Post per apprezzare l’ironia di certi dettagli: il ministro della Salute che si chiama Speranza ed è costretto ogni santo giorno a tranquillizzare gli italiani sulla salvezza del Natale, almeno di quello commerciale. Ma al netto dei giochi di parole, il senso è tutto qua: un intero Paese che dibatte su quanti posti a tavola potremo riservare ai parenti per il cenone mentre muoiono circa 700 persone ogni 24 ore. Lo notano persino negli Stati Uniti, dove pure il livello di (dis)attenzione per la pandemia sta facendo una strage.

“In Italia – scrive il quotidiano più volte Premio Pulitzer – la morte non è più registrata come una tragedia nazionale divorante. Ma la tragedia è comunque lì: si svolge in modo più silenzioso, nelle case di cura, negli ospedali e negli ospizi. Circa 10.000 persone sono morte a causa del coronavirus in Italia solo questo mese, un tasso di mortalità pro capite più che doppio rispetto a quello degli Stati Uniti“.

“In una settimana in cui l’Europa ha registrato un morto di Covid-19 ogni 17 secondi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Italia ha pagato il prezzo più alto del continente: 731 persone un giorno, 753 il successivo…”.

Ma è come se ci fossimo assuefatti al pericolo. Dopo lo shock della primavera, passata ad esplorare ogni anfratto della retorica più limacciosa (l’inno cantato al balcone, il mantra “andrà tutto bene”), abbiamo ballato in estate e abbiamo accettato di giocare alla roulette russa in autunno. 700 morti un giorno dopo l’altro, raccontati sempre alla stessa maniera, diventano una cantilena monotona: la paura si disinnesca nella sopportazione, ci si abitua a tutto. Pure a salutare uno zio ogni tanto.

Ma non è una resistenza consapevole, questa. E’ una rincorsa alla negazione terapeutica, piuttosto. Al 23 novembre le case sono già abbigliate per il Natale, come a mettere un punto: sarà come sempre, DEVE essere come sempre.

Lo scrive meglio il Whashington Post:

“Per coloro che non sono vittime dirette, per questo comportamento ci sono ragioni che vanno oltre la diminuzione dello shock che la seconda ondata ha prodotto, non con lo stesso grado di allarme. Il senso di solidarietà nazionale si è eroso mentre il paese cade sempre più in difficoltà economiche. E a differenza della prima ondata, le morti sono state spalmate geograficamente, in modo che le immagini della crisi non risultino altrettanto tragiche: niente camion militari fuori dagli ospedali, niente necrologi locali di 11 pagine. Ora i necrologi riempiono il giornale, ma i sopravvissuti piangono da soli“.

“Anche gli ospedali nelle zone più colpite dicono di poter evitare di scegliere chi vive e chi muore, in parte trasferendo i pazienti in altri ospedali con posti letto disponibili. Anche il tasso di mortalità per i pazienti gravi è inferiore, grazie a migliori trattamenti e alla comprensione della malattia”.

Ma non è il sistema sanitario il problema. In un Paese che ha passato gli ultimi due mesi a pentirsi – a chiacchiere – di aver sprecato tutti i sacrifici della primavera aprendo confini e discoteche ad agosto, siamo punto e d’accapo: invochiamo una “pausa” per Natale, come se la festività religiosa garantisse un’immunità. Replicando come dei pesciolini rossi impazziti in una boccia tonda gli stessi errori dell’estate.

Il ministro della Salute, Speranza, ha già annunciato che se – come si prospetta – tutta l’Italia verrà ridotta a “zona gialla” per le feste, la libera circolazione tra le regioni non potrà essere impedita. Ma “serve cautela”. Affermazione che ha lo stesso paternalistico valore precettivo dell’invito alla sobrietà del premier Conte, quando qualche giorno fa appena ammoniva:

“A Natale dobbiamo già predisporci a passare delle festività in modo più sobrio rispetto ai Natali scorsi e ci auguriamo rispetto al Natale prossimo. Quindi significa che veglioni, festeggiamenti, baci, abbracci: questo non è possibile. Ma guardate che, al di là delle valutazioni scientifiche, qui occorre buon senso”.

Senza peraltro – è il governo, mica un consigliere spirituale – predisporre misure per evitare che i festeggiamenti trascendano mettendo in pericolo la tenuta della pubblica sanità nelle settimane a venire.

Conte aveva pochi giorni fa detto che il Natale “è anche un momento di raccoglimento spirituale, quindi farlo con tantissime persone non viene troppo bene”, per capirci.

La nostra repulsione fisiologica alla continenza sociale è ora su uno dei più autorevoli quotidiani del mondo. Che scrive da un pulpito – gli Stati Uniti – traballante, ma mai come il nostro. Per come ce la siamo raccontata nei mesi scorsi (“abbiamo fatto vedere come si fa al resto del mondo), ora pretendiamo che la narrazione regga nonostante tutto. Abbiamo un tasso di mortalità doppio rispetto agli USA, un termine di paragone drammatico. Ma ci dibattiamo sul numero dei parenti ammessi a tavola, come le anguille nei vasconi la sera della vigilia.

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