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“Voglio evolvere”. Così Milik ci rinfaccia la nostra mentalità tribale

Ha 26 anni, e la maturità per sapere cosa vuole. Detta delle condizioni, perché è di lui che si parla, del suo destino, del suo futuro, della sua vita. Qual è il nostro problema?

“Voglio evolvere”. Così Milik ci rinfaccia la nostra mentalità tribale

Magari la traduzione dal polacco risulterà in seguito approssimativa, ma Arkadiusz Milik ad un certo punto, nella sua intervista dal ritiro polacco, dice una cosa quasi urticante. Dice: “Ho 26 anni, voglio evolvere”.

Poi, non fossimo abbastanza colpiti da quel concetto – l’evoluzione! – virgolettato ad un calciatore, affonda:

“Sono una persona che guarda come si sente. Fare qualcosa contro di me non ha senso, per me”.

Che sta dicendo Milik? Da che pianeta cala per avere la pretesa di deformare con tanta naturalezza tutti i pregiudizi che tratteggiano il calciatore moderno, sempre straviziato, immaturo, spesso ignorante?

Dice che vuole andar via da Napoli, Milik. Che se si fossero create le condizioni, lo avrebbe fatto anche prima della scadenza del contratto concedendo al Napoli l’agio di ricavarne qualche milione invece di vederlo andar via a parametro zero. Ma Milik vuole scegliere la sua prossima squadra, la città nella quale vivere il pezzo più importante della sua carriera. Ha 26 anni. Detta delle condizioni, perché semplicemente è di lui che si parla, del suo destino, del suo futuro, della sua vita. Dov’è l’intoppo?

Si parla tanto – spesso a vanvera – di professionismo, e poi una cosa semplice come un contratto tra due parti riusciamo a svilirlo in telenovela, a scavare fino a trovare il lercio, la malizia, la fregatura. Edulcoriamo una normalissima relazione lavorativa autoproclamandoci sacerdoti della morale: infame, “voleva più soldi” (“Se fosse stato così avrei rinnovato con il Napoli”). O, peggio ancora, il peccato capitale: “Voleva la Juve”.

E infatti Milik non fa mai quel nome a Sportowefakty, è trasparente ma mica scemo. Ma anche fosse… che ci sarebbe di male?

Recuperiamo il senso della realtà: Milik è pagato per giocare nel Napoli fino a maggio. Poi sarà libero di trovarsi un altro posto di lavoro, dove e come gli pare. È una mentalità tribale quella che rilegge questa dialettica in termini di “tradimento” e “vendetta”. Sono concetti di una banalità disarmante, che in qualsiasi contesto lavorativo – soprattutto dove “guadagnare più soldi” non è un sacrilegio di cui pentirsi in ginocchio sui ceci – rappresentano la grammatica base della domanda e dell’offerta.

Ma no, Milik ha rinunciato ad andare a Firenze: è “il male”. Sui social c’è gente che gli ha rinfacciato una mancanza di sensibilità, di non apprezzare a dovere l’arte che avrebbe respirato in Toscana mentre lo mandava “affankulo” (sì, con la kappa). Nello stesso tweet.

Pure noi ci abbiamo scherzato su, ma era appunto una presa per i fondelli un po’ cialtrona. Eppure, nell’immaginarcelo disoccupato a guardare i cantieri, con la compagna che a casa lo bullizza, abbiamo alimentato il sentimento puerile dell’accusa: te lo meriti, di startene in tribuna.

E invece no, non se lo merita. Siamo noi che invece meritiamo di essere trattati come rimbambiti ogni volta che il nuovo acquisto annuncia trasognato che giocare per il Napoli – “per noi!” – era sempre stato il suo sogno da bambino. Siamo noi che in pieno delirio d’onnipotenza c’illudiamo di possedere i destini dei nostri idoli, di assegnargli una traiettoria che non confligga con il nostro piacere e le nostre velleità.

Milik è stato anche accusato di essersi spaccato un paio di ginocchia a ufo, scroccando la riabilitazione per poi andarsene a forma ritrovata. E’ la sindrome Ronaldo (il primo, il vero Fenomeno), ma quando tocca a noi fa più male. Lui intanto – che in tutta questa caciara è rimasto silenzioso fedele al personaggio – all’improvviso parla e dice cose sensate. Pacate. Ragionevoli.

“Affinché il trasferimento avvenga, deve esserci l’accordo: col giocatore e con entrambi i club”.

Ma se l’accordo non c’è, il copione prevede buoni e cattivi. E punizioni. E gogne. Siamo fatti così.

Badate bene che tutta questa “drammaturgia”, come la chiama Milik tradotto male dal polacco, poi scade nella sceneggiata e finisce in uno sbuffo di fumo. In genere un accordo alla fine si trova, basta far decantare le questioni di principio. I milioni e i bilanci sono sempre un ottimo pacificatore.

È che non siamo pronti ad “evolvere”, noi. A goderci – o anche semplicemente ad ignorare – un giocatore che a 26 anni ha piena consapevolezza del momento, della sua vita, e rivendica una posizione chiara. Magari per soldi, anche se suona blasfemo. O per ambizione. Milik ha la maturità, almeno apparente, di sapere ciò che vuole. E di rinfacciarci che è così funziona. Tra persone normali, non per forza evolute.

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