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Essere Paratici: il professionista costretto a fare la figura del dilettante

È un lavoraccio: comporta sacrifici e figuracce. Ma guardate il capolavoro Juve: dopo due giorni, il fallimento non esiste più e celebrano tutti “Pirlolandia”

Essere Paratici: il professionista costretto a fare la figura del dilettante

Un altro titolo sarebbe “Sarri, bugie e videotape”, se fossimo negli anni 80 e il casting dei calciatori si facesse ancora in VHS. Ma Fabio Paratici, per come s’è (poco) raccontato negli anni, deve avere una specie di suo cimitero analogico nel quale conserva le bobine di centinaia di promesse, quando ancora non le chiamavano “prospetti” per renderli odiosi in partenza. Essere Paratici è un lavoraccio, comporta sacrifici e figuracce, ma alla fine (ri)paga.

Prendete la Juventus al 10 agosto: venerdì sera aveva confermato a pieni polmoni Sarri, venerdì notte era fuori dalla Champions, sabato nel primo pomeriggio ha esonerato Sarri, e sabato nel secondo pomeriggio ha ufficializzato Pirlo. Una domenica in mezzo per assorbire il minimo sindacale di contraccolpi mediatici (in generale analisi morbidose, con pochissimi spigoli) per poi presentarsi alla riapertura delle Borse il lunedì in piena celebrazione di “Pirlolandia”, con i due giorni di gavetta accumulata nell’Under 23 e la finale di Champions in bianconero appuntata in video alla voce “vittorie”. Il fallimento, l’esonero, la rivoluzione ribaltata… tutto finito. Capolavoro. Ecco, dietro questo modo così juventino di gestire la comunicazione, c’è (anche) Fabio Paratici.

A Paratici è toccato fare la figuraccia del dilettante, battezzato tale dallo stesso Sarri nella ormai famosa conferenza stampa pre-Lione: passare non solo per il rappresentante ufficiale di una dirigenza che giudica un’intera stagione riducendola ad una sola partita (peraltro vinta, non se ne farà mai una ragione Sarri), ma pure per quello che perorava strenuamente la causa della continuità. In tv, più e più volte, a dichiarare con una tigna ammirevole “Avanti con Sarri, s’è meritato la Juve”. Dieci minuti prima del fischio d’inizio di Juve-Lione metteva a verbale su Sky:

“Ha ripetuto esattamente quello che ho sempre detto io, i giudizi di una stagione, per allenatori e calciatori, non sono mai presi in base ad una singola partita. Se andremo avanti con Sarri? Certo”

24 ore dopo, era davanti agli stessi microfoni a precisare che “era già tutto deciso prima”. Con una faccia di bronzo di Riace, implacabile. E nessuno dallo studio che rinfacciasse il ribaltone, anche solo per fare un po’ di caciara, per non farsi trattare da passacarte. No. Anzi: il salottino di Sky dedicava l’intero pre-partita di Barcellona-Napoli (una partitella estiva qualunque, evidentemente) – ma proprio tutto tutto – a dibattere di Pirlo e farsi spiegare da Paratici quanto quella fosse una scelta “naturale” e “perfettamente juventina”. Nel racconto di una realtà parallela nella quale Pirlo, dopo aver giocato dieci anni nel Milan vincendo due Champions, è “una scelta juventina”. Siamo all’accaparramento fraudolento dell’altrui curriculum. Ma l’elencazione delle discrepanze tra magia comunicativa e realismo, è esercizio ozioso. Interessa più che altro ribadire il ruolo di Fabio Paratici. Una statua.

Non s’è lasciato insolentire, anche perché in pochissimi per la verità hanno provato a farlo. Lui ricordava allo studio che lì si era tra “persone di calcio, tutta gente di livello”, e quelli annuivano ricordando che l’uomo che s’era sputtanato la credibilità poche ore prima confermando un allenatore poi esonerato in un battibaleno, era ora il sogno proibito della nuova Roma. Una giostra.

Non siamo così naif da non sapere che nel calcio le menzogne funzionano al contrario, da sempre, e che quella sicumera pubblica con la quale il Chief Football Officer della Juventus garantiva a Sarri la sua panchina, suonava a tutti come uno “stai sereno Maurizio”. Era come il bacio sulla bocca degli uomini d’onore, era Michael Corleone che bacia Fredo prima di farlo ammazzare. Un classicone. Di nuovo: per vestire questi panni sporchi non ci si improvvisa. Bisogna essere Fabio Paratici, un professionista con una storia professionale blindata.

L’uomo che mentre fa la gavetta con Lorenzo Marronaro, incontra a tavola Marotta, già dirigente alla Sampdoria, e lo conquista elencando una serie infinita di calciatori sconosciuti descrivendone minuziosamente caratteristiche e doti tecniche. Il fante di Marotta che con – e senza di lui – vince nove scudetti di fila. L’esecutore materiale dell’acquisto di Cristiano Ronaldo, servitogli su un piatto d’argento da Mendes. Non è uno qualunque, Paratici.

C’è una bellissima intervista firmata nientemeno che da Walter Veltroni per la Gazzetta dello Sport – febbraio 2019 – in cui Paratici racconta i dettagli di tranelli e trattative, parla di sé, dice che essere Paratici è “il lavoro più bello del mondo” ma è pure una gran fatica. Per chi si domandasse senza troppi preconcetti cosa significa fare il capo del mercato di una società come la Juve, è una lettura istruttiva.

“Vedi solo le partite, i calciatori, fai un po’ di trattative, vai in giro per il mondo. Però, se sbagli giocatore, la colpa è del direttore sportivo. È bellissimo”

Dice che la sua è “una vocazione. Come fare la suora, ma nel calcio”. E che

“un buon osservatore è come un rabdomante, un cacciatore di opere d’arte contemporanea. Io finirò la mia carriera facendo quello: prima o poi andrò al settore giovanile per stare fino alle sette di sera a vedere un ragazzino che stoppa bene la palla e a lavorare perché migliori”

Di Pirlo, ben prima di considerarlo una scelta perfettamente juventina, diceva:

“Credo che nessuno sia paragonabile a Pirlo. Lui è il giocatore che sa giocare meglio a calcio che io abbia mai visto. Credo che nei prossimi 35 anni non vedrò mai più uno bravo a giocare a calcio come Pirlo, mai. Aveva una completezza di conoscenze del gioco, di tempi calcistici. Era un direttore d’orchestra e un primo violino, insieme. È uno dei pochi che il campo lo vedeva dall’alto, come volando. Disegnava geometrie impensabili e aveva i tempi sempre giusti”.

Ma il passaggio più bello è quello sugli allenatori, all’epoca c’era Allegri:

“Allegri ha una visione del gioco che non è statica. Spesso gli allenatori vedono il calcio in un modo, perseguono quello e cercano di continuare ad andare su quella strada, indipendentemente dal contesto. Conte, essendo molto juventino, è stato perfetto per quell’epoca. Conte aveva la juventinità – lavoro e voglia di vincere – nel suo Dna. Allegri invece ha assimilato la juventinità, ne ha presa molta. Lui è migliorato, ma allo stesso tempo ha portato a noi quella leggerezza che noi non avremmo avuto e non avevamo”.

Domanda: quindi Allegri resta?
Risposta:

“Certo che resta. Non vedo proprio un allenatore migliore”.

Vi ricorda qualcosa quel “certo”? Ecco. A fine anno Allegri va via, arriva “un allenatore migliore”: Maurizio Sarri.

Viene la sciatica a sopportare pesi del genere, posizioni che prevedono la messa in discussione preventiva della propria parola, la sua perdita di significato. Paratici è un professionista impermeabile, altro che “dilettante”. Quel grido di dolore del tecnico, a posteriori fa un po’ tenerezza. Come chi presupponeva un cordone ombelicale tra i due. Bastava tutto sommato leggere con un po’ di cazzimma – ben oltre le dichiarazioni ufficiali – la campagna acquisti della scorsa estate. Quando chiesero ad Agnelli se avessero comprato “giocatori da Sarri”, lui rispose sprucido: “Compreremo giocatori da Juve”.

Dybala, l’MVP del campionato per l’esoterica Lega di Serie A – insieme a Higuain era in cima alla lista dei partenti. È rimasto quasi a dispetto della dirigenza, diventando nel finale di stagione risolutivo. Escluso De Ligt, Paratici ha costruito un centrocampo di nomi: i parametri zero Ramsey e Rabiot invece del regista alla Jorginho, invece di una mezzala pura (ha provato inutilmente ad adattare Bernardeschi). Sarri non è mai stato dentro la Juve, l’ha sorvolata come un ufo. Ora – per restare al virgolettato reso a Veltroni – tocca a quello che “il campo lo vedeva dall’alto, come volando”. Le metafore, che meraviglia.

Paratici era lì, sapeva tutto e tutto vedeva. Ha speso per la causa le sue due o tre facce, passando per dilettante pur di restare professionista. Essere Paratici è un casino.

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