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“La maratona è vietata alle donne, rischiano l’infertilità”. Poi arrivò Roberta Gibb

La storia della prima “vera” maratoneta donna, che nel 1966 a Boston partì da un cespuglio senza pettorale e chiuse i 42 km in 3h21′. Oggi è una scienziata

“La maratona è vietata alle donne, rischiano l’infertilità”. Poi arrivò Roberta Gibb
Fonte: Twitter - @JohannesBuckler

Ufficialmente, per molto tempo, la donna a partecipare ad una maratona è stata Kathrine Switzer. La maratona era quella di Boston del 1967. Ottenne il pettorale numero 61 con uno stratagemma, perché all’epoca – ma stiamo parlando di appena 50 anni fa – alle donne non era consentito correre i 42 km, perché, dicevano, rischiavano l’infertilità. Al massimo potevamo correre gli 800 metri, le donne devono procreare.

La sua storia è abbastanza famosa: si iscrisse usando solo le iniziali, K.V. Switzer. Il suo fidanzato era un lanciatore di martello, e quando ad un certo punto il direttore di gara Jock Semple si accorse che c’era una donna in gara, la inseguì urlando “vattene e dammi quel numero”. Il fidanzato, Tom, pesava 106 kg. Il direttore di gara non fece una bella fine. Invece Switzer sì: 4 ore e 20 minuti.

Maratona boston

Fonte: Twitter – @JohannesBuckler

Peccato che non sia lei la prima maratoneta della storia. Perché quella stessa maratona fu corsa da un’altra donna, che però non aveva il pettorale, ma andava fortissimo: chiuse i 42 km in 3 ore 27 minuti e 17 secondi. E non era la prima volta.

La storia della “vera” prima maratoneta donna la racconta su Twitter il profilo @JohannesBuckler, che del racconto a spicchi da 280 battute ha fatto quasi un genere letterario di un certo successo (ha pubblicato anche un libro raccogliendo il meglio delle storie raccontate così). Il racconto è in prima persona. Il suo nome era Roberta Gibb.

Si allenava con le scarpe da infermiera, e nel 1966 spedì una lettera di iscrizione. Ma Will Cloney, il direttore di gara, le rispose informandola che le regole internazionali non contemplavano la partecipazione delle donne alle maratone. La motivazione? “Fisiologicamente non idonee”.

“A quel punto capii che stavo correndo per molto di più di un semplice traguardo personale. Stavo correndo per cambiare il modo di pensare della gente”.

Cinque giorni prima della maratona prese un autobus per fare i 4.800 chilometri che la dividevano da Boston. Indossava normali scarpe da ginnastica e bermuda del fratello, con una felpa blu con il  cappuccio per nascondersi. Partì da dietro un cespuglio. Spettatori e concorrenti, presero a incitarla, tutti.

“Con i piedi sanguinanti per le scarpe troppo piccole, con i crampi per la disidratazione (si pensava che idratarsi facesse venire i crampi) strinsi i denti e andai avanti. E tagliai il traguardo. Il tempo? 3 ore, 21 minuti, 40 secondi”.

@JohannesBuckler racconta anche l’epilogo: la storia fece il giro del mondo, lei si trasferì a San Diego, e nel 1975 sentì in tv parlare della prima donna a correre la maratona di Boston. Dicevano che era stata Kathrine Switzer nel 1967. “Ehi, fermi tutti, sono stata io la prima donna. Nel 1966”. Lo avevano visto tutti. Ci volle qualche tempo prima che la Boston Athletic Association la riconoscesse come prima vincitrice di una maratona, per gli anni 1966, 1967 e 1968.

Roberta Gibb non è stata solo la prima donna a correre la maratona di Boston. Oggi ha una laurea in giurisprudenza e fa ricerche sulla SLA come affiliato di neuroscienze al MIT e all’Università del Massachusetts Medical Center. E’ una artista e un’autrice di successo. Pure.

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