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I duri giorni della setta degli amanti di Callejon

Da sette anni, un pilastro, un simbolo di una cultura del lavoro. L’uomo innamorati degli spazi e non della palla. È arrivato il momento dell’addio

I duri giorni della setta degli amanti di Callejon

Il pizzino nelle mani di Titta Di Girolamo è l’epifania.

Accendo la tv, nella notte di un luglio silenzioso come le tribune degli stadi vuoti, dove il silenzio quasi tennistico è accompagnato dal rumore dei tacchetti e del pallone, dalle bestemmie e dal giubilo di attori e maestranze di un teatro senza spettatori.

La penna che scrive lentamente il monito:

Progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze di un amore.

E di quell’amore, il Titta Di Girolamo della pellicola di Paolo Sorrentino, ci muore; anteponendo il più nobile dei sentimenti alla tristezza di una programmata, monocorde e straordinaria normalità che aveva un solo grande merito, quello di tenerlo indenne in un mondo di squali.

Amare José Maria Callejon non è nemmeno una scelta, ma una conseguenza: una devozione nei confronti dell’idea che si fa calcio, che illumina spazi bui e che sgorga come una fonte inesauribile di acume. Da sette anni, un pilastro, un simbolo di una cultura del lavoro che, sotto qualunque regime (viceré spagnoli, comandanti di ventura, nobili d’antan e generali di trincea), trova il modo per diventare imprescindibile. Sul Volga avrebbero coniato un neologismo, come per Stakanov, per questo spagnolo, dagli occhi furbi e tristi allo stesso tempo, dalla voce da bambino e dai capelli sempre ordinati, atipico, perché non innamorato della palla ma dello spazio, del quale è esploratore e speleologo.

E lo ami, e lo amerai, anche se quello che una volta faceva venti volte a partita, ora riesce solo 2/3 al massimo. Anche se, per fare un gol ci vogliono 3 occasioni pulite. Anche se, qualche volta di troppo si perde l’uomo pur sapendo lui stesso che quel ripiegamento era nelle sue corde e oggi non riesce più con naturalezza.

Titta Di Girolamo queste cose, intimamente, le sa: le sa perché, tutto sommato, si è convinto che il ciclo del 7 dalle maniche lunghe è destinato a concludersi al termine di questa stagione. E lo sa anche José, giustamente attratto dalle sirene andaluse, dal sapore di una casa che per sette anni lo ha lusingato praticamente ogni estate, ma che lui ha sempre allontanato, uomo d’onore al servizio della maglia azzurra. Un epilogo giusto, che salverebbe la vita di entrambi.

Del calciatore, che potrà trovare una nuova linfa in una nuova esperienza (come il suo sodale Albiol, che insegna calcio a Vila Real) senza assilli dovuti ad un confronto con il passato recente.

Di Titta Di Girolamo, che naturalmente, avete capito, è il Napoli, che potrà continuare a sopravvivere nel mondo di squali, con la sua real-politik basata sui profili da lanciare, sulla fame e sulla voglia di affermarsi e migliorarsi. Di un Titta Di Girolamo che uno sgarro alla regola lo ha già fatto con il capocannoniere della storia del club, che a 33 anni ha strappato un rinnovo a cifre che difficilmente avrebbe concesso a chiunque altri.

Certo, è dura, anche e soprattutto per uno che appartiene alla setta degli amanti di Callejon, affermare l’inevitabilità di un suo addio: è, anzi, doloroso. Ma inevitabile, se non vogliamo vivere un periodo di assestamento che significa accettare i nostri limiti, in primis il tempo che scorre, e restare lì, come i ragazzini che non si vogliono staccare dagli ultimi tramonti in spiaggia di inizio settembre.

E non farebbe onore, non a Callejon, ma al suo culto, la narrazione della società cattiva e del calciatore buono: dapprima, perché la società il rinnovo a Callejon l’ha offerto, come confermato da Quillon, senza avere risposte. Forse perché il rinnovo imporrebbe a Callejon un ridimensionamento in termini di minutaggio e ruolo nella squadra che magari, chi é abituato ad essere imprescindibile, difficilmente accetterebbe. Insomma, Callejon, se la società vuole puntare su profili nuovi, non può essere una zavorra. Non lo merita anzitutto la sua professionalità, il suo senso di appartenenza e la sua storia personale.

Titta Di Girolamo lo tenga a mente: i rinnovi per riconoscenza sono l’unico modo per segnare una involuzione nel percorso di crescita di una società. E indossi gli occhiali spessi.

Perché è anche per miopia, che in realtà é una speciale forma di mancanza di coraggio, che il Napoli non è riuscito ad identificare un “erede”, arrivando all’ultimo mese di un contratto prorogato pur di inseguire forse un rinnovo prima offerto, poi ignorato ed adesso mitizzato. È per miopia, che abbiamo preso Verdi, Politano e forse Lozano senza credere che nessuno dei tre potesse effettivamente essere il futuro titolare. È per miopia, che non si siano affrontate queste questioni per tempo, lasciando la finestra semi aperta pronta ad accogliere quegli spifferi di aria umida di insoddisfazione. Quell’infantile senso di abbandono che accompagna il nostro addio a Callejon.

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