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“Restiamo buoni e reclusi, ma nessuno sta progettando il dopo: come si convive col virus?”

Giordano sul Corsera: “Qualcuno dovrebbe chiarirci le regole della fase successiva. Se esistono delle ipotesi concrete di lavoro, che ci vengano illustrate al posto dei numeri”

“Restiamo buoni e reclusi, ma nessuno sta progettando il dopo: come si convive col virus?”

Dobbiamo stare a casa, abbiamo capito. Ma poi? Questa domanda – “ma poi?” – non è retorica e non è fuori portata. E’ un’asticella che ogni governo responsabile dovrebbe posizionare dove crede, e cominciare a lavorare per arrivarci. Perché “abbiamo capito contro che male ci misuriamo, ne stiamo seguendo l’evoluzione giorno per giorno e abbiamo messo in atto le misure necessarie per contrastarlo”, come scrive lo scrittore Paolo Giordano sul Corriere della Sera, ma – appunto – poi? Che succede dopo?

La nostra convivenza col virus si protrarrà a lungo, almeno fino a quando una cura, un vaccino o una eventuale immunità di gregge non contribuiscano a renderlo molto meno pericoloso per il nostro sistema sanitario. Ed è una convivenza che va programmata: non basta campare alla giornata, perché il confinamento sociale è un approccio opportuno ma “medievale”, serve a salvare vite dribblando il contagio, ma “mentre noi restiamo buoni e reclusi qualcuno dovrebbe chiarirci le regole della fase successiva”.

Giordano si pone delle domande che rappresentano il tema centrale del nostro prossimo futuro:

“La «riapertura», anzi le riaperture dovranno avvenire in itinere, in qualche punto della curva nazionale dei contagi, o delle singole curve regionali. Ma in quale punto? Cosa dobbiamo aspettare e perché? E quanto è attendibile un grafico che tiene conto forse di un decimo della reale popolazione infetta? La prospettiva di un Paese sigillato ermeticamente a lungo è irrealistica e dannosa almeno quanto quella di un Paese fermo. Come verrà gestito il traffico umano in quel dopo-che-è-già-adesso? Quali protocolli verranno applicati negli aeroporti, nelle stazioni, negli alberghi e di quali risorse abbiamo bisogno per implementarli?”.

Che quello italiano non sia un “modello”, o che lo sia perché ce lo diciamo da soli, comincia ad esser chiaro: la Harvard Business Review ha sottolineato «l’importanza di approcci sistematici e i pericoli delle soluzioni parziali». “Ma al primo aprile – scrive Giordano – quaranta giorni dopo l’inizio ufficiale del contagio in Italia, le singole regioni scelgono ancora autonomamente come comportarsi per i tamponi, con la Lombardia e il Veneto, confinanti e simili, che adottano strategie diverse. Com’è pensabile, date queste premesse, che un protocollo valido in tutto il territorio venga approvato e messo in moto da qui al 18 aprile?”.

La gestione del “poi”, qualsiasi sia la linea (da quella coreana del tracciamento digitale a quella dell’ on/off delle restrizioni come in Cina), va pensata ora:

“Non vedo come possano essere anche solo congetturate delle riaperture senza prima una risposta a ognuno di questi quesiti. Se le risposte esistono già, o se almeno esistono delle ipotesi concrete di lavoro, che ci vengano illustrate. La conferenza stampa delle 18, la nostra nuova lugubre occasione di raccoglimento, si presterebbe bene a mostrarci a che punto sono i cantieri. Una linea di fuga in avanti avrebbe, tra l’altro, un effetto incoraggiante diverso dall’ostensione glaciale dei numeri”.

 

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