Straordinaria intervista a Sport Bladet. Parla di tutto: Paestum, Maradona, il razzismo, la Cumana, la camorra, Ventura, Danny De Vito, il Pampa Sosa
Karl “Kalle” Corneliusson a Napoli non ci voleva venire. Quando gli dissero che dalla Salernitana lo voleva Pierpaolo Marino, ma non all’Udinese in A come sperava lui, in serie C, rispose: “Non se ne parla, ho 27 anni e sono venuto in Italia per giocare in A. Non mi interessa grazie”.
Con lui giocava un ragazzo di nome Raffaele Longo, di Napoli, che a Napoli ci aveva giocato. Lo prese per pazzo: “Avrei potuto strisciare in ginocchio, andrei a piedi nudi da Salerno a Napoli per tornare a giocare di nuovo lì”. “I miei compagni – dice – proprio non riuscivano a capire come avessi mai potuto rifiutare quell’offerta…”.
Quel primo “no” al Napoli gli costò l’esclusione dalla rosa: “Un classico ricatto. Io nemmeno sapevo cosa significasse ‘fuori rosa’…”. Alla fine Kalle Corneliusson al Napoli in serie C ci andrà. Giocherà in tutto 11 partite. E sarà l’esperienza più incredibile di tutta la sua vita.
La racconta in una lunghissima intervista al magazine svedese Sport Bladet, ricucendo una trama fittissima di aneddoti, dal ritiro a Paestum a Maradona. Si era ritrovato nel suo sogno (“facevo parte del mio album Panini”) un po’ a sua insaputa.
“Andammo direttamente in ritiro. Il Napoli non aveva ancora pagato i suoi debiti con il Comune, quindi finimmo in un complesso alberghiero a Paestum. Abbiamo vissuto in esilio, un intero gruppo di giocatori che erano stati messi insieme in pochissimo tempo, 20-25 persone che non si erano mai incontrate prima. Ma ho avuto subito una sensazione molto positiva. C’era già Tommaso (Starace, il magazziniere a cui spesso Mertens dedica i gol), era la persona più bella del mondo, aveva la sua piccola moca per fare il caffè che probabilmente aveva 20-25 anni. Versava lo zucchero in un modo speciale, era un caffè terribilmente buono. E c’era Carmando. Le cose funzionarono sorprendentemente bene fin dall’inizio”.
Corneliusson entra in un mondo a parte, fatto di macerie e magia:
“Giocare al San Paolo è stato… magico. Come si dice in Italia, è una piazza fantastica. Ma mioddio, anche quando ero lì, lo stadio era incredibilmente logoro. Non ci avevano fatto nulla dalla Coppa del Mondo del 1990, avevano appena costruito un tetto e ridipinto un po ‘. Lo spogliatoio era al livello di una palestra scolastica. Con tutto il cemento grigio, sembrava di essere tornato negli anni ’50. Il San Paolo era come una pentola. Sembrava che la folla fosse a pochi metri dal campo anche se in realtà erano a 50 metri di distanza”.
De Laurentiis cambiò tutto.
“Il vecchio proprietario negli ultimi tempi aveva aumentato enormemente i prezzi dei biglietti, innervosendo i tifosi e accumulando solo debiti. Quello che De Laurentiis ha fatto invece è stato incredibilmente semplice, ma allo stesso tempo incredibilmente intelligente. Reso molto economico andare al cinema in Italia, per guadagnare soldi invece con caffè, bibite, popcorn e altri prodotti con margini molto alti. Fece lo stesso con lo stadio. Lo ha cambiato completamente. La gente tornò allo stadio come in pellegrinaggio. C’erano 45.000 persone nella prima partita di Serie C. È stato meraviglioso, assolutamente incredibile. In Italia di solito si dice che viene prima la chiesa e poi il calcio, ma a Napoli è il contrario. È un cliché, ovviamente, ma a Napoli, come per molti di questi cliché, è vero. È la vendetta del povero, l’opportunità di sentirsi un vincitore in una vita altrimenti persa… tutto questo”.
E nel mezzo di quelle 11 presenze spuntò un numero: la maglia numero 10 di Diego.
“Il Napoli l’aveva ritirato il numero 10 ma in serie C non glielo permisero. Toccò spesso a me indossarla. Ecco… non è possibile confrontarsi con gli alieni. Avrei preferito non averla. Era troppo grande, per me. Per la maggior parte dei ragazzi della mia età, Maradona era dio. Ancora oggi quando parlo con qualcuno mi fanno due domande: la prima è se Dan Corneliusson (che in Italia giocò nel Como diventando famoso per un gol che eliminò la Juventus dalla Coppa Italia 1985/86, ndr) è mio padre; la seconda è se davvero avessi giocato col numero di Maradona. Io avevo due magliette a partita, e ogni giocatore avversario voleva scambiare la maglia con me. Mai cambiata con nessuno. Oggi ne ho regalate alcune, ma ne ho ancora due o tre a casa”.
Corneliusson parla di Ignazio Abate (“pensavo avesse 27 anni, invece ne aveva 18, un fisico impressionante”) e dei suoi allenatori, Ventura (“parlava per parabole, e io pur migliorando col mio italiano non ci capivo niente”) e Reja (“che era più autoritario di Ventura, ma più indulgente e mi piaceva molto più di Ventura. Era molto più chiaro”).
A proposito della lingua e della sua vita da svedese a Napoli Corneliusson disegna un acquerello:
“Da svedese ero po’ ingenuo e pensavo che l’inglese all’inizio mi avrebbe aiutato, ma nel sud Italia non era nemmeno possibile ordinare spaghetti al pomodoro in hotel senza che vi venisse chiesto di cosa stessi parlando... Io non vivevo a Napoli, vivevo a Pozzuoli. C’è un gran traffico sulla Tangenziale che circonda la città e presto divenne chiaro che il club avrebbe avuto la sua nuova struttura di allenamento a Castel Volturno. Per evitare il traffico ci consigliarono di restare a Pozzuoli. Ci stavo benissimo: il traghetto per Ischia parte da Pozzuoli, e raccoglievo le clementine fresche fuori dalla porta della cucina, sul retro del nostro appartamento. Molto bello, tranne per il fatto che Pozzuoli è costruita sulla cima del vulcano Solfatara, quindi odora di zolfo ovunque, come in Islanda. Un giorno passai davanti all’edicola e vidi la prima pagina della rivista Focus: “Pericolo numero uno: Pozzuoli”. Geologicamente parlando, Pozzuoli è probabilmente il luogo più pericoloso in tutta Italia, perché è costruito su vulcani sia attivi che dormienti. Ma, indipendentemente dalle forze della natura, questa zona è come una pentola a pressione. Molte persone hanno visto film e programmi TV su Napoli. È speciale. Dato il traffico che c’era, una volta ho provato a salire sul treno dei pendolari (la Cumana, ndr) per andare a Napoli, ma mio dio… Non l’ho mai più fatto. C’erano persone addosso tutto il tempo, ma sempre amichevoli. Non c’era nulla da temere in quelle situazioni. Il mito di Napoli mi ha influenzato molto soprattutto all’inizio, ma col tempo mi sono rilassato sempre di più. È stato tutto così eccitante. È successo così tanto… Ogni giorno è stato come una settimana”.
“Il contrasto con la piccola Salerno era enorme”, dice. Anche per quanto riguarda la criminalità:
“A Salerno c’era una sola famiglia che controllava tutto. Se ti rubavano la vespa, andavi dal capo della zona e la vespa tornava a casa rapidamente. Non tolleravano altre attività illegali diverse dalla loro. Hanno fatto il loro commercio di droga ed eroso le finanze della città in diversi modi – ma per i residenti era molto tranquilla, Salerno. I piccoli crimini non disturbare i cittadini. La situazione a Napoli era completamente diversa. Probabilmente c’erano cinque o sei famiglie diverse in guerra, e ciò portò con sé un’ondata di omicidi che investì la città. Era molto preoccupante, e in quel momento era davvero la Napoli del pregiudizio. A noi giocatori diedero direttive molto chiare sul non andare in città inutilmente, sul non indossare orologi e abiti firmati”.
Napoli era unica.
“Sono stato in pochissimi altri posti al mondo in cui le persone sono così calde. I napoletani hanno un’identità culturale molto forte e chiara, hanno un loro tipo di umorismo e un dialetto che quasi salta, e diventa una lingua a sé stante. Ho sperimentato sia il modo in cui si guardano, sia il modo in cui gli italiani del nord guardano “i terroni”. Confina davvero col razzismo puro, sono visti come creature di livello inferiore e sporche. L’Italia è un vecchio paese fascista, in fondo“.
C’è una certa nostalgia nel racconto di questo centrocampista tutto d’un pezzo. E quando mai altrove gli sarebbe capitato di incontrare Maradona e Danny De Vito…
“De Laurentiis ci portava alle sue anteprime cinematografiche. Una volta mi sono seduto a cena accanto a Danny DeVito, perché ero l’unico in grado di parlare inglese. Mio Dio, quanto era piccolo. Ma se mi chiedi di scegliere un solo momento da ricordare dell’anno a Napoli, è semplice: la partita d’addio di Ciro Ferrara. Ci accompagnano allo stadio, entriamo nello spogliatoio e ci troviamo i giocatori che Ferrara ha invitato. Per me è stato come entrare nel mio vecchio album Panini del 1986. C’era Michael Laudrup, c’era Michel Platini, c’era Careca… assurdo. La metà di tutti i miei idoli erano raccolti in quello spogliatoio. E poi arriva Maradona. Era davvero lì. Lo abbiamo incontrato con la squadra. C’era Roberto Sosa, un omone grande e grosso, che cominciò a piangere come un bambino: “Adesso posso morire! Ho mia moglie, i miei figli e ora questo, la mia vita è completa”, ripeteva.
“Noi che facevamo parte della squadra non giocavamo, ma quando Ciro prese il microfono, salutò tutti e presentò i giocatori che sarebbero andati in campo: Zlatan, Thierry Henry, Zinedine Zidane, Alessandro Del Piero, Gianfranco Zola, Gianluigi Buffon, Gianluca Vialli, Pavel Nedved… ci sono voluti 20 minuti per chiamarli tutti. E poi alla fine Ciro disse: “Anche il mio migliore amico è qui ”. E tutti capirono. Quella notte è stata probabilmente la più grande che ho vissuto su un campo da calcio. Pur non giocando è stata forse la mia più grande esperienza calcistica”.