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Una chirurgo a Bergamo: «Dobbiamo intubare i quarantenni. I pazienti ci guardano, capiscono»

Straziante racconto dal Corriere Bergamo: «Ci mandano i messaggi d’amore per i parenti. E ai parenti noi diamo le brutte notizie. La Val Seriana andava chiusa»

Una chirurgo a Bergamo: «Dobbiamo intubare i quarantenni. I pazienti ci guardano, capiscono»

Sul Corriere Bergamo la testimonianza di una donna chirurgo che lavora all’ospedale di Treviglio. Una storia che potrebbe essere comune a tanti medici in prima linea nell’emergenza sanitaria da Covid-19.

“Quando sto per arrivare a casa avviso mio marito perché tenga i bambini lontani. Vado in bagno, sto sotto la doccia per 40 minuti, mi sfrego con acqua e sapone. Poi mi infilo la mascherina e, comunque, tengo i miei figli a distanza. Ho tagliato i capelli corti per evitare il più possibile di portarmi a casa qualcosa”.

A casa la seguono le immagini dei volti dei pazienti che i medici ogni giorno tentano di salvare come possono. Non ci sono mezzi sufficienti, non ci sono le condizioni per svolgere al meglio il proprio lavoro, accusa.

“Qui ci sono responsabilità con nomi e cognomi. La zona rossa della Val Seriana andava istituita subito. Gli studi epidemiologici erano chiari, dall’inizio di Wuhan, e la scienza non è un’opinione. Stiamo in piedi con la rabbia. Non abbiamo gli strumenti per intervenire su tutti, oltre che le protezioni”.

E racconta lo strazio quotidiano.

“Il paziente va in arresto respiratorio, gli pratichi il massaggio cardiaco perché no, tu medico non riesci a lasciarlo morire, ti guarda. E quando lo devi intubare? Il tubo ce l’hai ma non hai il ventilatore. Quindi? Età e comorbidità sono criteri di esclusione dalle manovre. Adesso dobbiamo intubare i quarantenni. Se domani arrivo io con il diabete, per fare un esempio, vengo dopo di lui. Si discute tanto di eutanasia, ma queste sono persone che, se avessimo i presidi, potrebbero farcela”.

I pazienti sanno cosa gli sta succedendo, racconta, ti guardano. Ti chiedono di portare i loro messaggi alla famiglia.

’Dica a mia moglie che la amo’ o ‘mandi un saluto alla mia nipotina appena nata che non ho potuto vedere’, ti dicono. Ai pazienti riportiamo le parole che i loro familiari ci consegnano al telefono, i bigliettini con i messaggi e i disegni dei nipotini che ci portano, restando fuori. Ai parenti diamo al telefono le notizie dei decessi. Ho dovuto comunicarlo a due figli di un paziente che abitano distanti l’uno dall’altra. Non hanno nemmeno potuto piangerlo insieme. Non dico tenergli la mano, perché nemmeno noi possiamo farlo. Muoiono soli e vengono portati in camera mortuaria avvolti in un telo con il disinfettante. Noi medici resistiamo, dobbiamo, ma siamo già vicini al crollo psicologico per la fatica, le ansie, e perché stiamo perdendo amici cari”.

E anche i medici si ammalano.

“Decine e decine si stanno ammalando. Vengono con la febbre ma non possiamo fare diagnosi, perché siamo troppo pochi, se non quando i sintomi sono tali che non si può più stare qui”.

E sfata anche lei la versione secondo la quale, ad ammalarsi, siano solo alcune fasce di età.

“Sto aspettando l’esito di due tamponi. A due ragazzi del 1973”.

Quando arrivano, uno è positivo e l’altro è negativo, scrive il quotidiano.

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