Il modello che funziona. «Senza individuazione dei contagiati, l’isolamento non è sufficiente». Tecnologia e trasparenza. I cittadini obbediscono
Al conteggio del 12 marzo in Italia sono morte di Covid-19 1.016 persone, su 15.113 casi totali. In Corea del Sud i casi confermati sono 7.979 con 66 deceduti. Come è possibile? Come ha fatto la Corea del Sud a tenere un tasso di mortalità così basso, a parità di condizioni sociali, ricchezza, livello di industrializzazione? La risposta è: tecnologia applicata con raziocinio, e una popolazione mediamente più giovane e ordinata pronta a rispondere con partecipazione agli input del governo.
Ma ancora di più: il “caso Corea del Sud” non ha niente di segreto, anzi. Le autorità coreane stanno cercando di diffondere e condividere con una trasparenza inappuntabile le loro “best practice”, praticamente inascoltati dal resto dei Paesi occidentali, che navigano a vista.
Lo hanno fatto, per esempio, con una conferenza stampa condivisa anche dall’Oms, di cui qui in Italia è arrivato poco o nulla. L’ha diffusa sui social un gruppo di esperti e professori universitari che cercano di farsi ascoltare anche dalle istituzioni italiane. Si può fare, o almeno si poteva. Il senso è questo.
Insomma, ecco il “segreto” coreano. La strategia è basata su tre pilastri, spiega Fabio Sabatini, professore di Economia alla Sapienza, riportando in un lungo post su Facebook l’esperienza coreana:
Primo punto: trasparenza. L’enfasi sul social distancing è molto forte: lo “Stiamo a casa” coreano è partito subito, molto forte. Le informazioni sono trasmesse alla popolazione continuamente attraverso conferenze stampa e comunicati estremamente dettagliati (molto diversi dai nostri stringati bollettini di guerra). I cittadini rispondono molto bene. La mancanza di informazione genera confusione e sfiducia. Informazione completa e trasparente rassicura le persone e le rende più cooperative. Niente allarmismo o false speranze: la verità.
Secondo: raccolta maniacale delle informazioni. Il Korean Center for Disease Control (KCDC) ha organizzato un formidabile sistema di raccolta di informazioni geolocalizzate per il tracciamento dei contatti dei contagiati. I potenziali contagiati e i viaggiatori che entrano nel paese devono scaricare una app per riportare volontariamente ogni giorno eventuali sintomi e la propria posizione.
Terzo: test mirati, rapidi e precoci. Il KCDC è in grado di effettuare fino a 20.000 test rapidi al giorno. Altro che tamponi solo su chi ha sintomi, con risultati che arrivano in due giorni. Chi ha sintomi viene testato a casa e, in caso di contagio, curato in isolamento (per evitare che contagi la sua famiglia). Nessuno è stato lasciato a casa a guarire da solo, come da noi. Grazie al sistema di tracciamento, tutti i contatti dei contagiati sono localizzati e testati rapidamente.
Il risultato è un tasso di letalità allo 0,7%. In Lombardia ha superato l’8%
Ora – scrive Sabatini – da noi la situazione sembra sfuggita alla possibilità di controllo precoce e il lockdown (tutto chiuso, diciamo isolamento o coprifuoco anche se coprifuoco non è, ndr) è necessario. Cominceremo a vederne i frutti tra circa due settimane. Ma c’è il rischio che, se non si tracciano i contagiati e la loro rete di contatti al fine di isolarli e curarli, al primo allentamento del lockdown l’epidemia riprenda a galoppare. Se non intervengono nuovi fattori esogeni a rallentare l’epidemia (il caldo o una mutazione del virus, per esempio), i nostri sforzi potrebbero quindi non essere decisivi.
Il punto, per gli esperti che stanno seguendo il “caso” Corea, è che affiancare il “sistema coreano” al nostro lockdown aiuterebbe a conseguire risultati definitivi. “In Italia avremmo le competenze necessarie per implementare un sistema di tracing simile a quello coreano. C’è bisogno della volontà politica di mobilitarle”.