Anche il tecnico portoghese è vittima del classico dibattito che investe gli allenatori stranieri. Ora, però, lui è accusato del contrario
Non è facile per uno straniero fare l’allenatore in Italia. Appena arrivi, se esprimi concetti in linea sei immediatamente investito dalla regina delle critiche: “non capisce il calcio italiano”. L’elenco è lungo. L’ultimo è Paulo Fonseca tecnico della Roma. Portoghese, arrivato dallo Shakhtar Donetsk.
Lui ha provato immediatamente a sottrarsi questo percorso obbligato. Dopo averla sfangata nel derby pareggiato in maniera fortunosa, ha dichiarato urbi et orbi di voler convertirsi all’italianità. E dopo che la sua Roma ha vinto a Bologna – in realtà con gol all’ultimo minuto – la sua italianizzazione è stata benedetta da media e tifosi. Adesso, però, succede che la sua Roma è stata sconfitta in casa dall’Atalanta e soprattutto che la squadra di Gasperini ha messo sotto i giallorossi sul piano del gioco.
Oggi il dibattito si è invertito. Oggi ci si chiede se non si sia troppo italianizzato. Anche i calciatori, come scrive ad esempio la Gazzetta dello sport, cominciano a nutrire qualche dubbio. E il quotidiano gli dà un consiglio:
Non occorre che Fonseca venga arruolato nella «querelle» giochisti contro risultatisti, né che divenga l’erede di Zeman oppure di Rocco. Il segreto, forse, è che cresca (in fretta), ma senza tagliare il cordone ombelicale che lega l’estetica delle sue idee alla loro duttilità. Sono quelle, in fondo, che hanno fatto innamorare la Roma.
Il dibattito è anche sulle colonne del Messaggero:
L’Italia del catenaccio è morta e sepolta, oggi qui ci sono tecnici all’avanguardia, Fonseca lo è. La Roma non ha giocato in quel modo, ma sicuramente non ha provato a fare il calcio che Fonseca conosce e per il quale è stato ingaggiato. Ha creato una squadra sulla base degli avversari e a un certo punto, pur volendo invertire la rotta, non c’è riuscito.