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L’Atalanta è una ninfa, non una dea

Furono gli svizzeri a portare il calcio a Bergamo. Da una scissione e una successiva fusione nacque l’Atalanta

L’Atalanta è una ninfa, non una dea
Una foto dell'Atalanta nel 1913.

Senza gli inglesi e gli svizzeri il calcio europeo e italiano non sarebbero stati gli stessi. Anche gli svizzeri? Sì, quelli del cioccolato e dell’orologio a cucù. Alla vigilia del 1900 l’imprenditore elvetico Hans Gamper aveva fondato il Barcellona, i soci di nazionalità svizzera avevano avallato la creazione della fondazione calcistica del Genoa, i soliti transfrontalieri della Confederazione avevano introdotto il pallone pure a Bergamo, diffondendo tra i giovani della città lo spirito democratico e popolare del “foot ball”. All’epoca, nel capoluogo lombardo erano attive la Società Bergamasca di Ginnastica e Scherma, che vestiva il bianco e l’azzurro; la Giovane Orobia e lo Sport Club Bergamo: promuovevano qualunque disciplina tranne che il calcio. Così nel 1903 un gruppo di studenti del benemerito Collegio Facchetti di Treviglio, capitanati dall’industriale rossocrociato Matteo Legler, diedero vita al Football Club Bergamo che partecipò ai campionati della Fif fino al 1910 con discreti risultati. Il solco era tracciato.

Da una di scissione, quattro anni dopo, nacque la “Società Bergamasca di Ginnastica e Sports Atletici Atalanta” che aveva lo scopo “di addestrare in tutti i rami degli sport atletici atti a maggiormente sviluppare il podismo, il salto, la lotta, il sollevamento dei pesi, la palla vibrata, il lancio del disco e del giavellotto, il nuoto, le marce in montagna e il calcio”. Buon ultimo, anche il calcio. Era la fissazione dei cinque fondatori che per dedicarsi al pallone lasciarono appunto la Giovane Orobia. Erano i fratelli Giulio e Ferruccio Amati, Eugenio Urio, Alessandro Fortini e Giovanni Roberti. Perché Atalanta? Per il gusto classico del tempo (oggi si sceglierebbe un banale riferimento anglosassone) e perché nella mitologia greca Atalanta è una splendida ragazza, una ninfa, formidabile cacciatrice e (quasi) imbattibile nella corsa. Quest’ultima abilità doveva rappresentare la freschezza atletica dei giocatori bergamaschi.

Le maglie erano bianche, come sempre le più semplici da reperire. Il Football Club Bergamo propose subito una fusione, i padri fondatori dell’Atalanta rifiutarono sdegnati, così la compagine che fu del dottor Legler nel 1913 si fuse con la Bergamasca di Ginnastica e di Scherma.

Le prime partire regolari dell’Atalanta si giocarono su un terreno tracciato in Via Maglio del Lotto nei pressi della massicciata ferroviaria. Le sede fu ricavata in alcuni locali della “Cavallerizza Medolago” in Via Vittorio Emanuele. Con l’adozione delle magliette palate bianconere, giunse puntuale il primo inno alla squadra “Gli striscioni bianconeri d’Atalanta, difensor indomabili e ardenti, trovan gloria a tutti i venti…”. 

Nel 1920 la fusione con l’altra realtà sportiva della città fu inevitabile. Vide la luce l’Atalanta Bergamasca, che adottò i colori nerazzurri scaturiti dalle due maglie di provenienza: la bianconera dell’Atalanta e la biancazzurra della Bergamasca. I fondatori decisero di cancellare il bianco, il colore comune. Era però simile a quella dell’Inter e dunque i tifosi dell’Atalanta di fronte a tale “grave” affinità, definirono “neroblù” la casacca della loro squadra. 

Oggi lo stemma del club è ovato, ha sostituito quello circolare di qualche anno fa e al centro porta il viso della principessa mitologica su campo nerazzurro. Sotto, l’anno di fondazione.

Negli anni ’60 e ’70 è circolato uno scudo irregolare, diviso tra i colori sociali e la figura della ninfa intenta a correre. Ninfa, appunto… ma perché i tifosi nerazzurri, anzi neroblù, continuano a chiamarla Dea?

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