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Non toccate quelle maglie (in difesa dei colori sociali)

Il Torino in azzurro, il Liverpool in viola, il Napoli in camouflage. Così il merchandising ha stravolto la storia dei colori sociali.

Non toccate quelle maglie (in difesa dei colori sociali)
Old Soccer, il negozio a Roma che vende solo maglie classiche

Proporre le strisce bianconere al Napoli e il viola alla Juventus o il blaugrana al Real Madrid scatenerebbe sommosse popolari. Questo è il limes che gli sponsor tecnici, bontà loro, non supereranno mai. Ma ci sono spudoratamente vicini, perché hanno rotto gli argini non solo del buon gusto, ma hanno pure calpestato, col beneplacito dei presidenti, la poetica della storia centenaria di ogni singolo club.

Si deve a Patrick Vieira una bella immagine, che spiega quanto sia impegnativo indossare una maglia, soprattutto se blasonata: «Non sono io a portare la maglia: è la maglia che porta me». Bello, ma il concetto è di fatto ribaltato. Nel florilegio di colori perpetrato sulle seconde maglie (away, dicono gli sponsor; away replicano i pappagalli dei mass media) e nella sperimentazione estrema praticata sulle terze, è il giocatore che porta la maglia: tanto, una vale l’altra.

Eppure l’origine dei colori delle squadre, innestata da una rigorosa sintassi araldica, ha tenuto storicamente conto della moda, dell’appartenenza sociale e politica, della religione. Spesso, il gusto e il caso sono state ragioni determinanti.

Il carrozzone del calcio europeo, sostenuto finanziariamente dai colossi dell’abbigliamento sportivo, ha rimesso tutto in discussione con la tacita complicità delle federazioni nazionali e l’indifferenza dei nuovi tifosi, più pragmatici e meno romantici. Ci sarebbe l’imbarazzo della scelta a commentare il vorticoso cromatismo, che connota molte seconde e terze maglie: accostamenti da brivido, sfumature crepuscolari, divise fluorescenti da fare invidia a quelle dell’Anas.

Nel mare magnum della ricerca si pescano a caso l’azzurro del Torino e il nero della Sampdoria, l’arancio del Newcastle e il viola del Liverpool, il glicine del Manchester City, il nero antracite (o forse ebano) della Roma, il blue jeans del Napoli. L’oscar dell’orrore va senz’altro assegnato alle divise di allenamento del Barcellona; pure queste, naturalmente, da casa e da trasferta. Il guazzabuglio di colori le rese semplicemente inguardabili.

Due stagioni or sono fu il Napoli a sorprendere con una sconcertante maglietta mimetica. Il fiuto per gli affari di Aurelio De Laurentiis è proverbiale e quindi gli (ex) azzurri indossarono per le gare di coppa una vistosa maglietta camouflage cavalcando la moda lanciata dall’eccentrico Lapo Elkann, che un bel giorno si presentò in una Ferrari in livrea militare.

E pensare che le vittorie del Napoli, da Antonio Juliano a Diego Maradona, hanno tutte il marchio dell’azzurro più nitido, che non ha mai conosciuto contaminazioni di sorta.

Non va dimenticato, tuttavia che le prime pulsioni riformatrici si manifestarono pericolosamente nei primi anni ’80 proprio in Italia, con l’affrancamento degli sponsor dalla subalternità ai club. Apparvero gli stemmi e cambiarono le maglie. Fiorentina e Lazio furono le antesignane di questa sperimentazione: i toscani si presentarono con una improbabile maglia viola bordata di rosso, mentre la Lazio adottò una grande aquila stilizzata sul petto. In quel periodo, l’Hull City salì agli onori della cronaca sportiva per aver scelto una maglia che riproduceva, pari-pari, le sfumature di un parquet. Fortunatamente il fenomeno non prese subito piede, ma fissò i presupposti per l’anarchia cromatica che governa quest’epoca.

Un bel libro, che vale la pena di segnalare, intitolato «Tutti i colori del calcio», ci ricorda che «la scelta dei colori delle casacche e le regole che la governano hanno infatti origine nel linguaggio cromatico della battaglie medievali, di cui a sua insaputa il calcio è la più stupefacente interpretazione moderna». È stato così fino a quando il carrozzone del calcio continentale non si è piegato alle regole, queste sì ferree e ben remunerate, del merchandising.

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