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Claire Underwood e la Juventus, quando la crisi di nervi nasce da un accento del Sud

Claire Underwood e la Juventus, quando la crisi di nervi nasce da un accento del Sud

La settimana appena trascorsa mi ha ricordato che la vita, sportiva e non, è anche questione di accenti.

Si è aperta con due grandi novità: mercoledì, al netto delle considerazioni da para-delirio calcistico di chi l’ha considerato un match d’altri tempi e al termine di quella che il suo capitano ha battezzato come la partita più brutta dei suoi ultimi sei anni, la Signora in Coppa Italia ha dimostrato di non essere avulsa da crisi di nervi; due giorni dopo, venerdì, è finalmente iniziata la quarta stagione di House of Cards, successo planetario che in apparenza racconta gli intrecci tra gli Underwood e l’eterna corsa alla Casa Bianca ma che in realtà è un complesso ed esteso saggio moderno su massa e potere, un Canetti all’epoca dello streaming.

Dicevamo degli accenti. Partiamo dal secondo evento. Una novità interessante in questa quarta stagione è la comparsa di Elizabeth Hale (una straordinaria Ellen Burstyn), la madre di Claire, moglie di Frank Underwood. La luciferina First Lady ha un passato dalle radici profonde, figlia di una ricca famiglia bene della contea di Dallas, sud degli Stati Uniti, e ad attestare questa ingombrante origine sale in cattedra l’inequivocabile accento di Elizabeth: strofe che dondolano, frasi cantilenate, rotolanti, strisciate su un terreno polveroso e poi rilanciate, un accento tipicamente texano che la fa da protagonista tanto quanto il sigaro di Eastwood nei western di Leone. Ora, essere del sud significa anzitutto essere destinati ad una piccola o grande onta da smaltire in vita, ovunque, persino per la signora Underwood che a Washington DC non se la cava poi tanto male. Gli accenti del sud – come cantava anche Johnny Cash in una celebre canzone – sono un modo di vivere e portare a termine le cose, oltre che una banale connotazione della voce, e sono anche un marchio: del sud sono i fannulloni, i latifondisti, gli schiavisti mai veramente redenti; certo del sud sono anche le rivoluzioni contro la segregazione, i racconti di Faulkner e la radice di tutta la musica moderna. Ma per la gente – pardon, per le Signore e per le loro incipriatissime dame da salotto – questo miscuglio un po’ barbaro è sufficiente ad evitare di condividere il tavolo del te e biscotti delle cinque.

Sempre in settimana è capitata una cosa che mi ha fatto riflettere: mentre ascolta la radio in auto, sulle strade di Berlino (dove viviamo), mia figlia di sette anni pone una domanda a mia moglie: “Mamma, perché in radio parlano tedesco-napoletano?” Gli speaker stavano parlando Berlinisch, piegavano alcune parole al dialetto berlinese. Il corto circuito mentale mi ha estremamente incuriosito: nella testa di una bambina che parla tedesco a scuola e con gli amici ed italiano a casa con i genitori, che ascolta conversare anche in dialetto, il napoletano è il cammino sul confine del lecito, per definizione. È l’eterodossia che serpeggia non priva di una certa sensualità, il sapore dell’infrazione possibile della regola e per ciò stesso il senso pieno della regola. È, anche, l’unico codice che rappresenti un legame concreto con una storia – pur non definendo alcuna appartenenza, visto che di fatto i miei figli non hanno mai vissuto a Napoli.

Poi sabato sera Maurizio Sarri, intervistato, ha proseguito questo lungo cammino linguistico scrivendo una pagina fondamentale di grammatica calcistica: “Chiriches è incappato in un errore che può essere anche responsabilità mia, nelle partitine d’allenamento se uno rinvia diamo rigore contro”. La cifra stilistica del Napoli che egli così spettacolarmente sta conducendo può definirsi solo a partire da un errore. Ho trovato questo stralcio del toscano davvero straordinario. È il compendio di una stagione e della somma delle precedenti nelle quali, anche noi spettatori, abbiamo dovuto imparare a convivere col possesso palla azzurro in qualunque zona del campo ed in qualunque fase, a cinque come a ottanta metri dalla nostra porta. Un fraseggio che genera adrenalina e terrore perché non ammette sbavature che non risultino fatali, esalta l’errore ed è il reale confine tra la regola – la trama, il passaggio fitto, la nostra firma calcistica – e l’eccezione – il travalicamento, l’eccesso di confidenza, la hybris pallonara. Chiriches difensore sabato sera ha aperto la strada all’avversario e Chiriches difensore ha ristabilito le proporzioni, col medesimo ondeggiante incedere nelle parole dell’anziana texana Elizabeth, che pare sempre sull’orlo di poter forzare la mano e adontare la propria classe, o come gli speaker tedeschi-napoletani nelle orecchie di mia figlia, che giocano a trovare la giusta dose di dialetto nel forzare la mano alla radio. È tutta una questione di accenti acuti e gravi e di consonanti che mutano e scompaiono. Di equilibri dinamici. Di accenti del sud. Sud ideali e non necessariamente geografici – Berlino è il sud della Germania, sprecone, dissoluto e mirabolante.

Sono sempre intonazioni, dicevamo. Le parole sono uguali per tutti, poi conta l’accento. Il punto è questo: la Signora di accenti non ne ha. Vince, e questo, come le palle sullo stemma araldico, nessuno potrà mai cancellarlo. Tuttavia, e paradossalmente, l’inesperienza delle zone grigie del lessico, della parte oscura della storia, porta la Signora a poter sbracare più platealmente se ben innescata. La dama che non ha mai provato il brivido dell’accento licenzioso si può ritrovare in un terreno inesplorato ed avere una nevrosi. La nobiltà ha bisogno di macchiarsi, o giocare a poterlo fare; necessita di prove, l’inchiodarsi, l’intrappolarsi di chi ti abitua ad un rigore contro anche se solo immagini di rinviarla via, come invece farebbe una qualunque dama nel salotto della Signora.

Gli sceneggiatori, alla fine, hanno bisogno di storie e le storie hanno sempre l’irriverenza di un accento del sud. Questo l’undici di Sarri pare saperlo. Forse è arrivato il momento che se ne convincano anche lettori e spettatori.

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