Diciannove partite fa, giusto un girone, il Napoli di Sarri bussava forte al campionato. Era la terza vittoria in Serie A, la prima volta che gli azzurri riuscivano a conquistare due successi in fila dopo quello con la Juventus. Fu la prima, vera, rivelazione di quella forza straripante che ora permette alla squadra partenopea di essere lì, punto a punto con la Juventus nella lotta per il primato. Chi ha la memoria corta probabilmente non ricorderà che quel Milan-Napoli 0-4 cominciò con le due squadre appaiate a nove punti. Tutto cambiò da quella sera, dopo quella partita: il Napoli è diventato il Napoli, il Milan ha dovuto trasformarsi più volte (ancora) prima di trovare la sua dimensione certa e migliore, una reale continuità di gioco e risultati. E oggi i rossoneri viaggiano con tredici punti di ritardo.
Mihajlovic iniziò a cambiare da quella sera, da quella partita. Basta leggere la formazione per rendersene conto: Diego Lopez, De Sciglio, Zapata, Rodrigo Ely, Antonelli, Kucka, Bertolacci, Montolivo, Bonaventura, Bacca, Luiz Adriano. Un portiere che ha disputato la partita successiva e poi basta, un difensore centrale autore di un autogol (Rodrigo Ely) che non ha più giocato neanche un minuto, un attaccante (Luiz Adriano) giunto come un potenziale crack e poi schierato titolare solo in altri tre match e addirittura venduto e poi rientrato a casa perché l’affare non è andato a buon fine. E poi, la questione-modulo: il 4-3-1-2 del 4 ottobre si è evoluto più volte fino al 4-4-2 di oggi, con Bonaventura trasformato in esterno sinistro di centrocampo, la fascia destra a Honda e Montolivo e Kucka in mezzo al campo.
L’allenatore serbo ha tantissimi meriti. Il primo è stato quello di rimanere a galla in una situazione ambientale esplosiva. E, soprattutto, di riuscire a farlo senza rinunciare ai suoi principi di gioco, a un’idea precisa di come la squadra debba stare in campo, al di là delle cifre di un modulo. Cioè, quello che era mancato al Milan negli ultimi anni, persi dietro a un’improbabile riuscita di progetti interni con allenatori ancora non pronti, evidentemente, e non in grado di progettare una squadra coerente in un contesto schizofrenico. Questo, oggi, è il Milan. Mihajlovic, pur sfiduciato più volte dalla sua stessa società, è riuscito a non far pesare ai suoi calciatori le diatribe interne al club, le ingerenze dall’alto e pure i numerosi momenti di difficoltà durante la stagione. È stato un tecnico-parafulmine, che ha lavorato al tornio della tattica e della motivazione una squadra sicuramente non spettacolare ma lineare e legata a principi reali, esistenti, pure piacevoli in alcuni frangenti: intensità, ripartenze, gioco sugli esterni.
Il derby del 31 gennaio è stata la cartina al tornasole del lavoro dell’ex allenatore della Sampdoria. Il risultato e soprattutto l’assoluta padronanza della partita hanno detto che il Milan, anche più dell’Inter, è una squadra addentro al suo progetto di rinascita. Una squadra conscia delle possibilità del momento, delle sue conclamate mancanze strutturali ma che ha provato e prova a migliorarsi attraverso il tentativo del gioco. Non del “bel gioco”, perché quello è roba da Napoli o Fiorentina squadre più rodate e con maggiore qualità, ma dell’identità voluta e inseguita dal suo allenatore. Il Milan ha saputo reinventarsi dopo una sconfitta storica, proprio contro gli azzurri, riscoprendo in sé la possibilità di essere e di esserci, ai livelli resi possibili dalle contingenze. Al momento, il quinto posto in campionato (a sei punti dalla zona Champions) e una (semi)finale di Coppa Italia comunque raggiunta, seppur attraverso un calendario reso agevole dalle clamorose sconfitte altrui. Il massimo possibile per il Milan, il massimo possibile per Mihajlovic che in conferenza stampa ha avvisato Sarri prevedendo come l’allenatore azzurro non sia contento di affrontare «una squadra che sta bene e può essere pericolosa». E che ha saputo cambiare, un girone dopo, per ritrovare sé stessa.