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Il valore economico e politico di un Napoli internazionale

Il valore economico e politico di un Napoli internazionale

A mente fredda, stagione conclusa e analisi elettorali esaurite, mi pare che, nonostante se ne sia fatto un uso alquanto largo e spregiudicato, il termine su cui si siano consumati i più pericolosi equivoci sia internazionalizzazione: la presunta volontà del Napoli di intraprendere la strada verso un calcio con connotazioni meno localistiche e più continentali rimane, ad oggi, il vero pomo della discordia.

Cerchiamo, allora, di capirne la genesi. Alla base di questa scelta societaria di globalizzare i propri orizzonti, al di là del solo campionato e dei mercati nazionali, esistono una precisa ragione economica ed una non banale strategia di crescita. La società campana sa bene di non avere a disposizione le risorse – tecniche, strutturali, societarie, economiche – per poter contendere agevolmente lo scudetto alle prime della classe. E’ il famoso discorso dei “fatturati”, che fa storcere immediatamente il naso ai meno attenti: nella enorme maggioranza dei casi, una competizione così complessa e distribuita nel tempo, come un campionato di calcio, la vince chi ha al proprio arco il maggior numero di investimenti possibili. Ed il Napoli, per mille motivi, molti dei quali non ascrivibili alla sua dirigenza, non è in cima a questa lista. Per tale ragione, è nel preciso interesse della società allargare la gamma di competizioni cui poter concorrere. Le coppe nazionali e continentali, infatti, sono traguardi per giungere ai quali possono seguirsi strade meno impervie dal punto di vista delle risorse necessarie a percorrerle. Le competizioni si basano su incontri tipicamente di 180 minuti, nell’arco dei quali è più difficile sbloccare violentemente un equilibrio in una direzione netta, ed in cui le differenze di tassi tecnici e tattici tendono a divaricarsi con maggiore lentezza. Il Napoli può giocarsela, insomma, nelle coppe. E ne abbiamo avuto chiaro riscontro.

Acclarato che l’internazionalizzazione è necessaria per il sostentamento della società, per tenerla in vita ad un livello significativo, di cosa si ha bisogno per metterla in pratica? Anzitutto, è necessario conoscere le regole di questo mondo, la grammatica giusta per parlare la stessa lingua delle altre contendenti e della competizione stessa. Questo si traduce, concretamente, nello studio di tutto quanto sia funzionale ad affrontare questi impegni (il modulo, i movimenti richiesti agli atleti, la gestione delle forze nervose, le caratteristiche mentali e fisiche necessarie), nella preparazione di un ambiente che sappia sopportare il peso dei cambiamenti richiesti in itinere, e nell’ingaggio di un allenatore che possa insegnare tutte queste cose ai propri giocatori. Dunque De Laurentiis non dice di voler scegliere un tecnico di livello internazionale per una sua strana visione eroica del mondo o per un capriccio da inesperto, ma per un preciso requisito societario. Per far quadrare i conti e cercare di contare qualcosa. E, visti i risultati, c’è da sperare continui su questa strada.

Quasi inaspettatamente, però, è in questo preciso momento che il processo di internazionalizzazione del Napoli, originato da motivazioni squisitamente economiche, acquisisce una forte connotazione culturale. Il baricentro della sperimentazione calcistica, infatti, non è più nel Belpaese da molto tempo, e la lingua sportiva che oggi si parla in Europa non è semplicemente diversa da quella che si parla in Italia, ma le risulta spesso opposta. E’ da questo scontro traumatico sui mezzi da utilizzare, sui modi di giocare, sui tempi, sul cosa privilegiare in uno spogliatoio, in una conferenza stampa, in una partita, che si fonda l’impatto culturale del progetto Napoli. Perché questo scontro richiede una mutazione nel modo di intendere il calcio, da parte di tutti, cui tutti, in modo diverso, oppongono resistenza. Se da una parte, infatti, esso richiede alla stessa società un salto di qualità significativo a diversi livelli – comunicativo, organizzativo, strutturale – dall’altra apre il campo a una ridefinizione del concetto di tifo: Napoli non basta più al Napoli, non può più essere necessario nascere in un perimetro circoscritto da qualche parte in città o provincia per essere un tifoso di questa squadra, né può essere sufficiente avere lontane radici da qualche parte in Campania. Il Napoli, se vuole sopravvivere, deve irretire ragazzi da ogni parte del mondo, e Napoli città deve trovare in se’ un motivo nuovo, diverso, più universale per farsi capire, per farsi amare, molto più grande dei quattro soliti luoghi comuni che si combattono quando fanno male, ma si incensano quando fanno bene. Il compito è difficile e quanto maggiore sarà la resistenza incontrata durante questo processo, tanto maggiore sarà l’efficacia della trasformazione che esso può portare: bisogna che ci si convinca che il cammino del Napoli verso il domani non potrà mai essere trionfale, non potrà avvenire a furor di popolo, per sua stessa definizione. Anzi ci sarà da preoccuparsi nel momento in cui dovesse riuscire magicamente a mettere tutti d’accordo.

Ma, in modo ancora più interessante, la connotazione culturale di questo processo assume significati politici nel momento stesso in cui va inaspettatamente ad incidere sulla vita dei singoli cittadini: se è giusto essere europei, se è giusto evitare un ritiro e consentire a ricchi atleti di rimanere con figli e famiglie alla vigilia di una gara importante solo per rasserenarli e prepararli all’impegno, perché’ dovrebbe essere giusto per un cittadino comune, che tifa ed osserva questi atleti, essere costretto a lavorare straordinari che non verranno mai pagati, pur di onorare una consegna? Sono queste le domande che si insinuano nelle teste delle persone, altro che chiacchiere; sono domande scomode e pericolose, per cui ad esse si cerca di fare argine con le retoriche delle bandiere e delle maglie sudate, dei mercenari, della bontà del localismo, nella immortale speranza che se ci impicchiamo tutti a un casatiello non sentiremo le pericolose sirene del futuro che chiama.

In questo senso, paradossalmente, il Napoli internazionale ha un valore politico superiore a quello (deboluccio) sprigionato dalle ultime elezioni regionali – il che spiegherebbe il motivo per cui il giornale cittadino prende posizione sulla vicenda De Luca ma non si arrischia a distaccarsi troppo dalla voce del tifo. In parte perché, oggi, a casa nostra, il calcio smuove passioni più profonde dei problemi di una amministrazione locale – cosa probabilmente non ideale; ma in altra parte perché questo calcio a Napoli è forse l’unico, tra le istituzioni politiche e culturali, a parlare una lingua chiaramente rivolta al domani, al futuro e all’esterno. Fa, per ragioni economiche, quanto la politica e la cultura istituzionali dovrebbero fare per ragioni civiche. E lo fa proponendo domande cui lui stesso non sa dare risposta, domande più potenti di quelle scialbe che spesso i politici ci rivolgono: dove ci collochiamo noi, oggi, nel mezzo dell’Europa? Cosa possiamo veramente dare a questo continente – a questa che è e sarà la nostra vera casa del domani e di tutti? Il nostro compito è trovare risposte possibili e percorribili a queste domande.

Mi si conceda una provocazione finale: è stato sinceramente toccante il ricordo del monumentale Petisso all’ultima di campionato. Ma, non giriamoci attorno: ricordare Pesaola è come scomodare la Divina Commedia, non troverai mai anima viva che abbia l’ardire di descriverne i limiti. Sono le esperienze che mettono tutti d’accordo, ed è comprensibile. Un passo avanti sarà ricordare, tra decenni, qualcuno che, venuto da queste parti, abbia poi confidato di non sentirsi un napoletano nato in qualche altra parte del mondo. Ma semplicemente uno che abbia scelto liberamente di passare un po’ della sua vita qui, a lavorare ed imparare. Per poi andare via.
Raniero Virgilio

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