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La Bologna degli anni Ottanta e Maradona

La Bologna degli anni Ottanta e Maradona

Maradona a Bologna

L’immagine di Napoli rielaborata attraverso la figura del suo eroe calcistico

di Adolfo Fattori (tratto da “Maradona – Sociologia di un mito globale”, a cura di Luca Bifulco e Vittorio Dini) 

Sciocchezze! Ce ne vogliono quattro, di Gullit, per fare un Maradona.

Oscar “Flipper” Damiani Al “Processo del lunedì”

La Bologna degli anni ’80

Negli anni ’80 del secolo scorso – gli anni in cui Diego Armando Maradona giocava nel Napoli – Bologna aveva una particolarità forse unica nel panorama italiano: un campionato di calcio dei bar della città. Un campionato organizzato in gironi di andata e ritorno, giocato dai frequentatori abituali dei vari bar, che si quotavano per poter assicurare un premio ai vincitori del torneo. In genere una cassa di vino e un prosciutto magari, o una mezza forma di parmigiano-reggiano.

La prova di quanto il calcio fosse amato – e praticato, quindi conosciuto intimamente, per esperienza diretta.

Una sola delle prove, in verità, perché un’altra è sicuramente nella circostanza che la città e la provincia fossero costellati di campi e campetti, gratuiti o meno, e popolata di squadre amatoriali e di dilettanti. Tanto che gruppi di amateurs, specie adulti che volevano fare un po’ di movimento, potevano organizzarsi, fittare un campo scoperto o coperto, e assoldare un allenatore perché gli insegnasse i “fondamentali” del gioco, giusto per praticare il gioco più bello del mondo passando dalla spontaneità disorganizzata di quando erano ragazzini e giocavano negli spiazzi liberi, sotto casa, in campetti improvvisati, ad un minimo di “competenza”, di disinvoltura.

Uno sport praticato, conosciuto, amato, ricordando il grande Bologna degli anni ’70, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, quello di Ezio Pascutti, Helmut Haller, Giacomo Bulgarelli…

Era scontato che per chi amava tanto il calcio, Maradona non era solo un calciatore del Napoli, quindi di una squadra di fatto avversaria, ma il calcio dispiegato in tutta la sua bellezza.

Il luogo migliore, insomma, in cui avrebbe potuto succedere quello che scriveva qualche anno dopo Vladimir Dimitrijevi?: «Intendiamoci: Pelé, Platini, Beckenbauer sono grandi giocatori… Beckenbauer incarna il genere del giocatore perfetto, del professionista… imperturbabile sempre in cravatta, inforca occhiali d’oro e continua vivere un’esistenza che non mi appassiona per nulla. È come quei poeti accademici che consultano i rimari, si scelgono temi raffinati e diventano, nel migliore dei casi, epigoni di Valéry. È ammirevole ma non è niente. Quando Don Diego fa il suo ingresso in un qualsiasi bar, tutti gli vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no, aspettano che il giro lo paghi lui[1]».

Questa Bologna era ancora in pieno quella depositata nell’immaginario di molti di noi: una città affluente, benestante, gaudente. Cosmopolita, perché con antiche tradizioni di accoglienza – di giovani, essendo una delle più antiche città universitarie d’Europa, di operatori economici e professionisti ospitando alcune delle più importanti fiere internazionali, della cosmetica, dell’edilizia, dei motori.

Non aveva perso ancora – nonostante l’agiatezza diffusa – lo spirito solidaristico e cooperativistico profondo che ne animava gli abitanti, il rispetto per le istituzioni, la consapevolezza dei propri diritti di lavoratori e di cittadini, e contemporaneamente lo spirito civico e il senso dei doveri nei confronti della collettività, qualsiasi fosse l’ideologia di appartenenza, una “visione del mondo”, se si vuole, temprata nel bisogno, nella fame, nei disagi in cui si era vissuto almeno fino al fascismo, prima come sudditi della Chiesa e vittime del latifondo, poi oppressi dal fascismo, e poi, alla fine, come resistenti, partigiani, combattenti per la libertà e ancora dopo protagonisti delle lotte sindacali e operaie.

La Bologna di quegli anni era ancora quella costruita attorno all’alleanza dei vari ceti e classi sulla base di due o tre punti cardine: lavoro, servizi funzionanti perfettamente, tranquillità sociale garantiti dai partiti della sinistra. Una società interclassista nel senso migliore, col suo tessuto di piccole aziende in cui “padroni” e dipendenti spesso lavoravano fianco a fianco e condividevano l’osteria, il bar, e – perché no – le partite di pallone.

Un’alleanza che sarebbe stata incrinata, però, da un evento che avrebbe ridisegnato i rapporti fra la città ed una delle sue componenti più significative, i giovani: il “Settantasette” bolognese. I disordini, gli scontri di piazza, la morte di uno studente fuori sede avrebbero in parte cambiato le cose. Il circolo virtuoso per cui l’amministrazione pubblica assicurava servizi e gratuità agli studenti fuori sede e in generale ai giovani, che così potevano permettersi di pagare affitti e fare vita notturna in giro per le osterie, si era frantumato. Le cose cominciavano lentamente a cambiare. Di lì a poco avrebbero cominciato ad aumentare i flussi migratori in ingresso, con dimensioni e caratteri che la città avrebbe avuto difficoltà ad assorbire.

Questo però non toccava l’atteggiamento nei confronti dello sport in generale e del calcio in particolare. La diffusione della pratica amatoriale e il disincanto di fondo dei bolognesi non cambiavano, e si traducevano in competenza tecnica e pacatezza nelle discussioni anche nelle chiacchierate quotidiane, atteggiamento forse agevolato dalla situazione del Bologna Football Club, attraversato in quegli anni da crisi societarie e traversie continue, che inducevano molti bolognesi a guardare al campionato con una partecipazione distaccata, neutrale, rilassata.

A ripescare fra le cronache di quegli anni, però, si trova poco di documentato e commentato, se non gli articoli del “giorno dopo” sulle pagine sportive dei quotidiani: di quando il Napoli andava a giocare al Dall’Ara o di quando il Bologna restituiva la visita scendendo al San Paolo.

Pure, per l’aura che aveva intorno – che spirasse direttamente da lui o fosse indotta dai media – e per il suo carisma el pibe de oro era ben presente nell’immaginario dei bolognesi, come dimostrano le testimonianze che siamo riusciti a raccogliere da chi ricorda bene quegli anni – bolognesi “doc” e napoletani residenti a Bologna.

Con un’avvertenza necessaria a proposito di questi ultimi: la loro immigrazione era stata scarsa, e generalmente intellettuale/professionale fino a quegli anni, e comunque poco appariscente, discreta, priva di quelle manifestazioni che i luoghi comuni e l’immaginario assegnano all’essere napoletano, per avere proprio a partire da allora un’impennata più “popolare”, specie dalle province di Napoli e Caserta, grazie all’incremento dell’edilizia nella cintura bolognese.

Ora, se consideriamo il gioco del calcio, di per sé, un potente medium, attraverso cui vengono trasmessi valori, narrazioni, immaginari, un medium a sua volta esaltato da altri media (Tv, radio, stampa), non è azzardato riconoscere che l’emergere e l’affermarsi in Italia di un personaggio come Diego Armando Maradona abbia avuto un impatto su chi seguiva il calcio (e non solo) dirompente e significativo, per il legame e le affinità – da lui stesso rivendicate e amplificate dai media – con la città di Napoli.

Uno degli effetti di questo processo fu, a Bologna, il modificarsi nell’immaginario locale della rappresentazione della città di Napoli e dei suoi abitanti: se ne confermarono gli aspetti “positivi” (in gran parte fantastici, sicuramente) come la creatività e l’allegria, ad esempio, mentre ne venivano diluiti i tratti più sgradevoli (e altrettanto fantastici nelle loro estremizzazioni), come la disonestà, l’inaffidabilità. Insomma, lo stesso pibe de oro diventa un medium, che rimandando una propria immagine, identifica con questa quella della città che ha scelto – o da cui è stato scelto – per giocare a pallone.

Proponiamo di seguito, quindi, qualcuna di queste interviste, con un’altra avvertenza. Piuttosto che proporre ai nostri interlocutori un’intervista strutturata attorno ad una serie di domande precise, abbiamo preferito lasciargli la possibilità di parlare liberamente, riandando indietro col ricordo, così da mettere in luce gli aspetti dell’immagine di Maradona che più li avevano colpiti allora. Riporteremo quindi in forma di narrazione, il più possibile libera, le risposte a quella che può essere considerata come un’unica domanda, Che ricorda – da residente a Bologna – di Diego Maradona nel periodo in cui giocava in Italia?

 B. S. pensionato

Allora ero decisamente più giovane, naturalmente… lavoravo in ferrovia e abitavo alla Bolognina.[2] Poco lontano da dove abitavo c’è il “Dopolavoro ferroviario”, dove andavo a giocare a carte, a bocce, e dove con alcuni amici e colleghi ci vedevamo per organizzare qualche partita a pallone fra noi. Eravamo dilettanti, giocavamo per divertirci le sere in cui il giorno dopo non eravamo di turno. Ricordo che uno degli appuntamenti fissi era per organizzare le andate allo stadio quando venivano a giocare a Bologna le squadre importanti come la Juve, il Milan… in quegli anni, naturalmente, anche il Napoli. Erano gli anni di Platini, di Van Basten, ma prima di tutto di Maradona.

Deve considerare che in quegli anni – ancor più che in questi – il Bologna arrancava, si arrangiava fra serie A e serie B. L’unico calciatore vero che vedemmo giocarci fu Lajos Détári, forse. Che, a dire il vero, giocava solo quando gli girava, e quando giocava finiva per “predicare nel deserto” di una squadra di brocchi…

Insomma, il Napoli di Maradona era un’altra cosa. Il lunedì, dopo le partite, se ne parlava al lavoro, per strada, sugli autobus. Si andava allo stadio per loro. Deve tener conto che allora non c’era la pay Tv, Sky, Mediaset. C’erano solo “Tutto il calcio minuto per minuto” alla radio, e poi “Novantesimo minuto” e la “Domenica sportiva” in televisione, e si vedeva poco delle partite.

A quel punto rimaneva lo stadio, e non contava il risultato, volevi vedere lo spettacolo. E non solo in campionato. Ricordo una sera di maggio, l’anno che il Napoli vinse il suo primo scudetto e la Coppa Italia. Era pieno di tifosi del Napoli, che quando giocava al nord venivano da tutte le città in cui erano emigrati. Persone allegre, con le loro bandiere e i loro canti. D’altra parte anche noi tifosi bolognesi non eravamo come quelli di oggi: niente insulti, niente slogan razzisti. C’era solo la bellezza del calcio.

Faceva ancora freddo, c’era anche un po’ di nebbia, ma col mio gruppo di amici andammo lo stesso al Dall’Ara. Incredibilmente, alla fine del primo tempo vincevamo noi per 1 a 0 con un goal di Marocchi!

Poi, però, col secondo tempo il Napoli si mise a giocare. Era impressionante, quando attaccava: scendevano verso la nostra porta in cinque o sei, tutti sulla stessa linea, con Maradona al centro, e – in certi momenti – sembrava che si allenassero: provavano l’azione una prima volta, poi la rifacevano e segnavano. Alla fine ce ne fecero quattro. Noi riuscimmo a segnare ancora un goal, verso la fine, ma loro erano un’altra storia… E vedere giocare la palla da Diego Maradona era uno spettacolo. Mai viste cose così…

Nella nostra immaginazione Maradona significava Napoli. Era facile identificare il calciatore con la città, con il suo calore, con la sua fantasia: fra i miei colleghi, molti provenivano da Napoli e dai suoi dintorni. Fino ad allora, ciò che ci aveva unito era stato il sindacato, il partito… il modo di essere calciatore di Maradona aggiunse qualcos’altro, che riguardava queste persone con cui lavoravamo e lottavamo insieme, ma che comunque ci sembravano un po’ diverse da noi. Abitudini diverse, tradizioni diverse. Maradona avvicinava, perché esprimeva un calcio creativo, felice, non meccanico e calcolato come quello di altre squadre. E questo ci sembrava confermasse l’idea che avevamo, senza conoscerli o conoscendoli poco, dei napoletani.

R. D. insegnante

Sono napoletano, ma in quegli anni vivevo e lavoravo a Bologna. Appartenevo alla piccola pattuglia di immigrati da Napoli – in genere laureati – che si erano trasferiti lì in quegli anni, attratti dalla prospettiva, reale, per quanto mi riguarda, del buon governo, dei servizi funzionanti, dell’accoglienza della città. È vero che, da quanto mi raccontavano quelli che erano lì da qualche anno prima di me, la situazione in parte era cambiata dopo il 1977, il “Settantasette” bolognese: non c’erano più mense e autobus gratis per gli studenti universitari, non c’era più la stessa disponibilità della città nei confronti di chi andava lì a studiare da residente, una certa diffidenza si era insinuata fra i residenti e la massa di giovani che popolava la città – non solamente i “fuorisede”, naturalmente, che pure continuavano ad essere un pilastro dell’economia locale. Si era creata una frattura, insomma, che però non toccava certo chi andava lì per lavoro, specie nelle amministrazioni pubbliche, in banca, nella scuola.

Tifavo Napoli, e le persone che frequentavo di più – i miei alunni, spesso calciatori dilettanti, anche le ragazze – tifavano in massa per il Bologna, naturalmente, con significative punte per la Juve e il Milan (erano gli anni di Platini, Gullit, Van Basten, per inciso, e i miei alunni erano adolescenti, quindi facili agli entusiasmi…).

Fra l’altro, visto che l’immigrazione in Emilia proveniva tradizionalmente da Puglia, Abruzzo, Calabria anche, era facile che gli immigrati dal sud che i miei alunni potevano conoscere tifassero per le grandi squadre del nord, quelle titolate, famose, che avevano vinto scudetti e coppe internazionali: le milanesi, la Juventus…

Ero visto come una bestia rara, insomma, perché – essendo pochi i napoletani – erano pochi anche i tifosi del Napoli, determinati ma sporadici nella loro fede calcistica.

Naturalmente le discussioni c’erano: se era più forte Maradona, o Platini, Gullit. Erano gli anni in cui il calcio cominciava a cambiare pelle, a prendere quella deriva “spettacolare” che avrebbe portato alla vittoria da tre punti, alle partite di campionato distribuite su più giorni… il primato della Tv sulla dimensione tradizionale, anche romantica, del “pallone”, con anche, però, i suoi vantaggi: allora o guardavi il “Novantesimo minuto” e la “Domenica sportiva”, o non avresti mai visto almeno le fasi più importanti delle partite di calcio…

Insomma, si polemizzava, come si è sempre fatto nel tifo, nello sport “consumato”.

Devo aggiungere però che un personaggio come Maradona, con il suo carisma (che secondo me derivava dall’unione di genialità nel calcio e semplicità nelle cose che diceva) e il suo scontato e alimentato prima di tutto dai media accostamento alla “napoletanità” spingeva le persone a incuriosirsi, e i miei alunni a chiedermi della mia città, di come ci si viveva, del perché me ne ero andato: occasioni d’oro, per me, per cercare di modificare l’immagine stereotipa e banale che molti di loro ne avevano.

Tanto che dai miei alunni ebbi un immenso regalo, il giorno dopo la conquista del primo scudetto del Napoli.

Quel lunedì mattina, ancora distratto dal corteo di auto improvvisato in cui ci eravamo infilati la sera prima, subito dopo aver avuto la sicurezza che lo scudetto era vinto, con i bolognesi che vedendoci passare si fermavano lungo la strada e ci applaudivano, arrivai a scuola, e mi avvicinai all’aula della classe dove avevo lezione.

Stranamente, la porta dell’aula era chiusa, e gli alunni non erano tutti lì intorno a chiacchierare, gironzolare, guardarsi in giro (i maschi le ragazze, le ragazze i maschi). Prima mi chiesi se ricordavo male, se magari non era quella la mia ora, magari la classe era in palestra o in uno dei laboratori… Aprii la porta e… la cattedra era tutta decorata con palloncini azzurri, e sulla lavagna c’era un grande striscione: “Forza Napoli”. Un grande augurio, affettuoso, per il primo scudetto. Questo è il ricordo più bello che ho, naturalmente dopo lo scudetto in sé!

Per ringraziarli, l’anno dopo per quella stessa classe, organizzai la “gita scolastica” annuale proprio a Napoli e nei dintorni, perché vedessero con i loro occhi le differenze fra la visione tradizionale, al massimo televisiva che ne avevano.

G. S. impiegato

Ero ancora ragazzino quando Diego Maradona giocava in Italia. Abitavo in un comune del primo hinterland attorno a Bologna. Giocavo al calcio in cortile, con i miei amici, ma mio padre già mi aveva promesso che poi mi avrebbe fatto fare un provino in una delle squadre di dilettanti dei dintorni. Ce n’erano tante, il calcio era molto diffuso. Allora non era come oggi, in Tv non si poteva vedere tutto il calcio che si vede oggi. Ricordo però che la domenica, dalla primavera in poi, andavamo a pranzare sui colli alle spalle di Bologna, all’aperto, in una di quelle aree da picnic più o meno attrezzate, o in qualche trattoria dove si poteva mangiare fuori, all’aperto. Alle tre del pomeriggio (tutte le partite si giocavano a quell’ora), tutti accendevano le radioline che si erano portati dietro, e cominciavano a seguire “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Praticamente, ho scoperto poi, tutti giocavano al Totocalcio (c’era solo quello, niente scommesse o altro), e quindi tutti erano interessati all’andamento della giornata, non solo a quello della propria squadra. Insomma, un po’ di calcio, per forza di cose, lo seguivo anch’io, anche perché tornavamo sempre a casa in tempo per vedere “Novantesimo minuto”, i goal della giornata, le azioni migliori… mio padre era un appassionato tranquillo, più del calcio in sé che di una squadra in particolare. Ma quei pochi brandelli di partite del Napoli che si riuscivano a vedere cercava di non perdersele mai: guardare Maradona, diceva lui, valeva sempre la pena. E infatti quando il Napoli veniva a giocare a Bologna era una delle poche occasioni sicure in cui mi portava allo stadio. Lì non riuscivo a vedere molto, a dire la verità: ero piccolo, abituato più alla Tv che allo spettacolo dal vivo, e avevo sempre un attimo di… ora direi straniamento, aspettandomi un replay che non ci sarebbe stato.

So che oggi in certi settori degli stadi ci sono gli apparecchi Tv sintonizzati sulle emittenti che trasmettono la partita che si sta giocando proprio lì, per cui è possibile vedere anche i replay delle azioni. Ma allora no. Da ragazzino, pensavo che ci volesse un’abilità particolare, per seguire il gioco, cogliere i gesti atletici e i tocchi di classe più belli. Ancora oggi non so come facessero gli altri a rendersene conto. Aspettavo quindi la sera, i servizi alla Rai, per vedere quello che gli altri avevano visto ed io no. E allora mio padre mi faceva notare le cose più belle che i calciatori, i fuoriclasse avevano fatto. E Diego Maradona c’era sempre, più o meno…

L. V. libero professionista

Beh, allora ero ragazzino, ancora. Non seguivo il calcio, anche se mio padre lo faceva. Ma non andava allo stadio, lo seguiva da casa, per radio e per televisione. Ricordo però che erano i tempi della rivalità fra Napoli e Juventus, e dei confronti fra Platini e Maradona, chi dei due era più bravo, chi fra loro era più completo, chi era più indispensabile alla squadra. Direte, Ma se il calcio non ti interessava, come mai ti ricordi di questi confronti? Semplice, e curioso, nello stesso tempo. Ricordo che da casa nostra affacciavamo su un cortile, e oltre il cortile c’era una palazzina dove abitava una signora anziana, ma ancora indipendente. Le domeniche in cui il Bologna giocava in casa vedevo dalla finestra di casa mia questa signora cominciare a tirare la sfoglia per i tortellini[3] su un tavolo enorme. Faceva un sfoglia immensa, che copriva l’intero tavolo. E poi faceva i tortellini. La sera, per tradizione, comunque fossero andate le cose, ospitava l’intero Bologna a cena, a mangiare i suoi tortellini.

La signora aveva due grossi gatti, che gironzolavano sempre in cortile, fin quando lei non li chiamava ad alta voce per dargli da mangiare. Così conoscevo i loro nomi: quello bianco e nero si chiamava Platini, quello marrone Maradona.

A me interessavano più i gatti che il calcio a dire il vero, ma, incuriosito, chiesi a mio padre di spiegarmi, e lui mi parlò della rivalità fra le tifoserie delle due squadre, delle differenze fra i due calciatori – e delle polemiche secondo lui avviate ad arte da certe trasmissioni televisive e certi giornali sui due calciatori, sulle loro qualità, sulle differenze, su chi fosse il più bravo fra i due. E aggiunse, alla fine di questa spiegazione che lui in particolare non aveva dubbi, non c’era confronto: Platini era un fuoriclasse, ma Maradona era… e si fermò qui: non aveva un termine per definirlo. Secondo lui era il più grande di sempre, e tutte le chiacchiere sulla sua vita privata, sull’essere adatto a giocare a Napoli, e così via c’entravano poco con le sue qualità di calciatore…

In realtà – me ne sono reso conto crescendo – mio padre era un individuo amareggiato, disincantato, molto critico nei confronti del mondo. Però su una cosa aveva ragione: diffidava dei giornalisti e dei maitre à penser del calcio. Il “dibattito sportivo” gli sembrava una pantomima. Per un po’ di tempo si guardò il “Processo del lunedì”, poi smise: secondo lui era una recita già predisposta, con le parti già assegnate, che aveva come scopo solo di vendere un po’ di spazi pubblicitari scatenando polemiche che non avevano senso…

Tanto che, quando i nostri vicini di casa, napoletani, il giorno in cui il Napoli vinse il suo primo scudetto, esposero fuori della finestra una bandiera azzurra – ricavata, si vedeva, da una stoffa che avevano, non una di quelle bandiere che si vendevano fuori degli stadi – e suonarono alla porta per invitarlo a brindare con loro, mio padre ci andò volentieri, e mi portò con sé…

Di queste persone, che abitavano sul nostro stesso pianerottolo da qualche anno, sapevamo poco, giusto ci salutavamo quando ci incrociavamo fuori della porta di casa. Ma furono così gentili e discreti, nella loro gioia, che da allora cominciammo a vederci ogni tanto, e qualche anno dopo, quando il Napoli conquistò la Coppa Uefa, ci vedemmo tutte le partite con loro. Insomma, diventammo amici: non erano i “marocchini”[4] che eravamo abituati a immaginarci.

M. L. artigiano 

Andavo regolarmente allo stadio, ogni volta che il Bologna giocava: ero un tifoso. Non da curva, ma comunque abbastanza fedele alla mia squadra. Degli anni in cui giocava Maradona quindi ricordo prima di tutto le partite che ha giocato al Dall’Ara. Certo che era uno spettacolo, te ne accorgevi comunque, anche se non tifavi per il Napoli. Ero preso da quello che succedeva alla mia squadra, e del resto non mi interessavo più di tanto. Però ricordo un episodio, anzi due. L’anno che il Napoli vinse il secondo scudetto, mi pare che era il 1989-90, verso la fine del campionato, vennero a giocare a Bologna le due squadre che lottavano per lo scudetto, prima il Milan poi il Napoli.

Il Milan rubò il pareggio, grazie all’arbitro e ai guardialinee che non videro la palla entrare nella porta del Milan di almeno mezzo metro. Ricordo che assediammo l’arbitro a lungo (sì, anch’io) negli spogliatoi, insultandolo come “socialista”. Erano gli anni del PSI di Craxi, poco prima dell’esplosione dell’inchiesta di “Mani pulite”.

Poi venne il Napoli, a vincere 4 a 2. La vittoria c’era tutta. E almeno ci godemmo un grande spettacolo. Il giorno dopo, non si parlava che di quello, della differenza fra le due squadre, e del modo in cui avevano fatto il risultato…

La differenza fra l’andamento delle due partite, e il comportamento delle due squadre per me come per altri allora si mescolò con l’idea che avevo delle due squadre, delle due tifoserie, delle due città. Da un lato il grigio e la furbizia – e la presunzione dei potenti – dall’altro la creatività e l’umiltà di chi non ha vinto mai nulla, ma che ha un tesoro prezioso – il calciatore più grande di tutti, che si sfianca come gli altri, ma si diverte e diverte pure chi lo sta a guardare. Era un esempio in campo e fuori, come nelle interviste che concedeva. E ci rendeva più vicini i napoletani, che conoscevamo poco. Sì, è vero, Bologna è stata sempre considerata una città accogliente, ma a dire il vero i pregiudizi nei confronti dei meridionali c’erano, e dei napoletani in particolare: erano pochi, da noi, e non ne sapevamo molto di più di quanto vedevamo in televisione o nei film. Figure da teatrino, da avanspettacolo. Oppure delinquenti. Vederli quando venivano a seguire la squadra ci mostrava un’immagine diversa di loro: persone normali che si godevano una grande gioia, che speravano continuasse il più a lungo possibile. 

Conclusioni

In assenza di tracce e riscontri significativi risalenti alle cronache giornalistiche dell’epoca, abbiamo provato a rintracciare persone che in quegli anni vivevano a Bologna e seguivano il calcio, necessariamente non solo o non tanto il Napoli e le sue vicende.

Ne emerge un quadro – ci sembra – in cui la passione sportiva non era tale da traboccare in dimensioni esasperate, come quelle cui ci hanno abituato le cronache degli ultimi anni, e che permetteva prima di tutto di apprezzare quanto di bello lo sport del calcio riesce ad offrire.

Si cominciò a produrre però un cambiamento, sottile, se si vuole, appena accennato, sicuramente inconsapevole, nella percezione che i bolognesi avevano dei napoletani: poco abituati alla loro presenza, molto di più a quella di immigrati da altre zone del sud Italia, ne avevano una percezione derivante dai luoghi comuni più diffusi – fondata sull’immagine che le cronache e l’immaginario cinematografico e televisivo avevano costruito ne decenni precedenti.

Diego Maradona, le sue prodezze, il suo stesso modo di essere e interpretare il calcio – alimentati, certo, anche dalle strategie delle comunicazioni di massa che immediatamente colgono le presunte affinità fra la personalità del calciatore e quella attribuita ai napoletani – diventano il medium attraverso il quale viene rielaborata questa percezione, o almeno lo stimolo a rielaborarla, rafforzata dalla possibilità, ormai reale, di conoscere in concreto persone i cui ritratti fino ad allora erano appartenute largamente all’immaginario.

Per anni i rapporti fra le due tifoserie e le due città – nei termini dell’immaginario che ognuna delle due ha per l’altra – sono stati amichevoli e positivi, come dimostra questo estratto dal “Resto del Carlino” di meno di un anno fa:

“Due giorni dopo la morte del capitano, il San Paolo accolse i rossoblù rispettando quel dolore.

Giacomo Bulgarelli se ne andò il 12 febbraio del 2009. Due giorni dopo, il 14, il Bologna giocò a Napoli… la sua prima partita orfano del più capitano fra i capitani, dell’Onorevole che pur di rimanere nella sua squadra e nella sua città aveva rimandato al mittente le offerte milionarie del Milan. Diceva Giacomo: «Io mi conosco: se vado a bere il caffè in centro a Milano e dentro il bar non conosco nessuno mi viene il magone…».

A noi il magone venne la sera la sera del 14, entrando al San Paolo: uno stadio pronto a salutare Giacomo Bulgarelli, simbolo eterno della bolognesità.

(…)

Raccontammo noi e così fecero quasi tutti, quell’accoglienza così rispettosa del dolore altrui, quella capacità dei napoletani di andare oltre la rivalità sportiva per essere vicini ai bolognesi che avevano perso uno dei loro più prestigiosi ambasciatori.

Esisteva una volta un legame anche fra la tifoseria più calorosa del Bologna e quella del Napoli. Nel 1990 il Napoli festeggiò la conquista dello scudetto in un Dall’Ara che applaudì Maradona e compagni e Lucio Dalla, con il suo strepitoso «Caruso», ha cementato quel legame. Poi qualcosa si è rotto fra ultrà dell’una e dell’altra parte e se il Dall’Ara non è più amichevole per i napoletani, di certo anche il San Paolo non lo è più (da tempo) per i bolognesi.”[5]

Così, l’11 maggio del 2013, praticamente oggi, scriveva Stefano Biondi sul “Resto del Carlino” di Bologna.

Adolfo Fattori 

Bibliografia

Biondi S., Bologna, pace col Napoli in nome di Bulgarelli, “Il Resto del Carlino”, 11/5/2013.

http://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/sport/calcio/2013/05/11/886754-bologna-pace-napoli-bulgarelli.shtml

Dimitrijevi? V., La vita è un pallone rotondo, Adelphi Milano, 2000.

Fattori A., La disposizione del pallone e della vita, “Quaderni d’Altri Tempi” 26/2010, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero26/mappe/q26_m02.htm

[1] Dimitrijevi? V., La vita è un pallone rotondo, Adelphi Milano, 2000, cit. in Fattori A., “La disposizione del pallone e della vita”, in Quaderni d’Altri Tempi, n° 26, 2010. http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero26/mappe/q26_m02.htm

[2] Un quartiere di Bologna di forte tradizione operaia.

[3] “Tirare la sfoglia” è la frase bolognese per dire che si prepara la pasta fatta in casa.

[4] Il termine con cui a Bologna vengono indicati con disprezzo i meridionali. Come “terroni” nel resto del nord.

[5] Biondi S., Bologna, pace col Napoli in nome di Bulgarelli, “Il Resto del Carlino”, 11/5/2013.

http://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/sport/calcio/2013/05/11/886754-bologna-pace-napoli-bulgarelli.shtml

 

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