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E così abbiamo scoperto
la moviola ad personam

Le dichiarazioni del presidente Giancarlo Coraggio, il giudice del caso Lavezzi, offrono la conferma definitiva a quello che in molti sospettavano: l’assoluta inaffidabilità dei criteri e dei metodi utilizzati della cosiddetta giustizia sportiva nella gestione dei procedimenti disciplinari a carico dei calciatori. Le tre giornate di squalifica inflitte a Lavezzi hanno coinvolto l’intera città suscitando polemiche e divisioni, come accade sempre quando si parla di calcio a Napoli dove, come si sa, il tifo non è solo la passione per una squadra ma uno stato d’animo trasversale che coinvolge ogni ceto sociale.
La tendenza di noi tifosi al vittimismo, e a vedere dovunque complotti orditi ai danni del Napoli da parte dei soliti poteri forti del calcio, viene da lontano, spesso è esagerata e immotivata, ma comunque, ha una sua ragione di essere per le mille ingiustizie subite negli anni. Oggi però questo atteggiamento trova una autorevole giustificazione proprio nei motivi che avrebbero indotto i giudici di secondo grado a confermare la sentenza di Tosel.
È senz’altro vero che il processo sportivo vive di regole proprie, vetuste, e ispirate da un sostanzialismo spregiudicato e tendenzialmente colpevolista. Non si può però assistere in silenzio allo scempio di un principio fondamentale per qualsiasi ordinamento, quale è senz’altro il diritto di difesa, che andrebbe sempre salvaguardato e rispettato in ogni contesto giurisdizionale e a prescindere dalla posta in gioco.
Dunque apprendiamo che il fantomatico filmato made in Mediaset capace, secondo il dottor Coraggio, di inchiodare Lavezzi alle sue responsabilità salivari era presente negli atti processuali sin dal giudizio di primo grado. Ciononostante la prima sentenza non ne fa alcuna menzione basandosi unicamente sui filmati Sky benché, come è costretto a scrivere il medesimo estensore di quel provvedimento, non rispondessero pienamente al requisito di inequivocabile chiarezza richiesto alla prova televisiva. Il ricorso del Napoli, come era giusto e inevitabile, tendeva a ribaltare quella contraddittoria decisione del giudice Tosel e quindi le ragioni, le prove, sulle quali si fondava, non certo quelle non utilizzate, non tenute in considerazione per la decisione, e probabilmente neanche conosciute ed esaminate dal difensore. Solo la sentenza, e la motivazione sulla quale si regge , possono rappresentare l’oggetto di una impugnazione e questa regola vale in ogni tipo di procedimento giudiziario o disciplinare.
Scopriamo invece che un giudice di appello può rivalutare prove già esistenti, ma non considerate in primo grado, a prescindere da qualsiasi contraddittorio con le tesi difensive che su quelle prove non potevano interloquire perché ignorate dalla sentenza impugnata. Incredibile ma vero! Ma l’aspetto più sorprendente riguarda la genuinità di quella prova decisiva, lì dove, come candidamente ammesso dallo stesso dottor Coraggio, era impossibile verificare eventuali manipolazioni effettuate a monte da chi quelle immagini le aveva realizzate e fornite alla Procura Federale. Eppure poteva e doveva sorgere il sospetto che la provenienza di quei filmati non fosse del tutto neutrale e disinteressata. Sarà anche una mera coincidenza , ma certamente assai singolare , quella che accomuna nella medesima persona la proprietà di quella fonte televisiva e la presidenza del Milan, prossimo avversario del Napoli, orfano di Lavezzi, proprio nella partita decisiva per l’esito del campionato.
Ormai siamo abituati a conflitti di interessi di ogni genere e al proliferare di iniziative legislative personalistiche e pretestuose, ma era davvero inimmaginabile, anche per il tifoso più fazioso e vittimista, dover salutare il debutto, tra le prove giudiziarie, della moviola ad personam.
Claudio Botti
(tratto dal Corriere del Mezzogiorno)

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