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Maoz Israel: “Ho regalato io l’amuleto a Mazzarri”

Il Mazzarri convertito? «Ma non scherziamo!…» . Maoz Israel, 59 anni, osservatore e manager, il calcio una religione, conosce bene l’allenatore del Napoli: «Tratto calciatori da una vita. E per che cosa finisco sui giornali del mio Paese? Per un amuleto!» . Un titolo su Yedioth Ahronot: «La squadra del Napoli punta sull’hamsa per vincere» . Sotto, una storia ripresa dalla stampa italiana: Maoz che un bel giorno regala a Walter Mazzarri il palmo d’una mano in argento, l’hamsa, piccolo simbolo che ebrei e musulmani appendono a stipiti e retrovisori; Mazzarri che se lo dimentica un giorno solo, e infatti perde la partita; Mazzarri che non se ne separa più e ora, secondo in campionato, attribuisce anche a quella manina santa il merito di tanta vittoria… La domanda: c’entra il credo? «È una faccenda intima — dice Maoz —. L’hamsa ce l’ho anch’io. L’ho comprata in città vecchia e l’ho regalata ai miei amici non ebrei. Su quella di Walter c’è la scritta Jerusalem e il Tefilat ha-Derech, la preghiera del viaggiatore. Perché noi del calcio siamo cittadini del mondo. Mazzarri s’è messo l’hamsa in tasca, è superstiziosissimo, pensa che gli porti buono» . Una risata: «Ma io ne sono sicuro: non sa nemmeno che cos’è…» . Vedi Napoli e poi gufi. Perché la sfiga ci vede benissimo e dove andare a cautelarsi, se non nel suk mistico di Gerusalemme, la terra dei cabalisti che dà i numeri meglio della Smorfia? «Bellissimo, un allenatore italiano usa il nostro simbolo! — esulta Bill Gross, ebreo americano che ha la più grande collezione di hamsa —. Però vorrei fargli sapere una cosa: questa manina, più che un portafortuna, è uno scacciaguai. Un po’ come il corno di corallo…» . Doparsi di scaramanzia è pratica antica. Negli anni 70, per allontanare la malasorte al San Paolo s’usavano gli iettatori professionisti: uno si chiamava ’ O Musicante e lo pagavano solo perché si sedesse in curva con gli avversari. Quegli anni atei e di pura superstizione sono finiti, però. Dio non è affatto morto e anche il dio pallone, alla fine, s’è convertito: oggi, l’amuleto funziona meglio se profuma di sacro, d’esoterico, di stregonesco. I riti della tribù del calcio sono infiniti. George Weah e le preghiere musulmane. Trapattoni e l’acquasanta. Liedholm e il mago di Buscate. C’era una volta Betty Cuthbert che leggeva i versi d’Isaia, prima di stracciare tutte sui 200 metri. E c’era l’argentino Juan Carlos Lorenzo che aspergeva d’incenso lo spogliatoio. O il brasiliano Zagallo, che in ritiro si portava l’esorcista. O l’Ernesto Pellegrini, presidente dell’Inter, che mandava le maglie dei giocatori a Lourdes. Oggi abbondano i segni della croce col bacetto. C’è Itay Shechter, il calciatore israeliano dell’Hapoel, che si mette la kippah (e rimedia un’ammonizione) ogni volta che fa gol. O la biker Paola Pezzo che bacia il crocifisso. O il lanciatore Cabalisti che tiene stretta la medaglietta di Santa Rita. Per non parlare dei ju-ju e dei gris-gris, delle pelli di serpente e dei crani di babbuino, i ciondoli animisti delle squadre africane: il Senegal dei riti voodoo, il mitico ex portiere ’ Nkono del Camerun arrestato mentre appendeva qualche ala di pipistrello alla porta nemica. Religiosità magica, liquidano i religiosi. Innocui antistress, assolvono negli stadi. «Soprattutto nel calcio, c’è una superstizione esagerata — spiega Bruno De Michelis, psicologo dello sport, che ha lavorato al Milan e oggi è Human Performance Director al Chelsea di Ancelotti —. Ne soffrono tutti. La superstizione è direttamente proporzionale all’ignoranza: si correla un effetto a una causa, senza alcuna logica, e fino alla dipendenza si tende a ripetere quel comportamento. Anche se è insensato, slegato da qualsiasi credo. Un’altra cosa sono i simboli religiosi o magici, però. Qui si entra nel campo della spiritualità. Sappiamo tutti che l’acquasanta è H2O. Ma ben altro è il suo significato: tranquillizza, conforta, dà fiducia. E allora, perché non usare questi simboli che rendono le persone più stabili, più equilibrate, perché si legano a quel che credono?» . Forse, sarebbe meglio giocare solo coi fanti… «Donadoni, Weah, Filippo Galli: ne ho visti tanti segnarsi, pregare con convinzione. La croce, la medaglietta, la manina non sono portati come bigiotteria o per superstizione. Sono oggetti di testimonianza. Dicono come si colloca, nell’universo, quello che sto facendo. Anche se sto solo inseguendo un pallone su un prato» .
di Francesco Battistini (Corriere della sera)

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