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Cantone: Calcio strumento di controllo delle mafie

Raffaele Cantone, giudice di Cassazione, uno dei pm che ha fatto la storia (giudiziaria) della lotta ai Casalesi. Che ci fa un intero capitolo sul calcio nel libro di un magistrato antimafia?
«C’entra eccome. Il calcio è un pezzo della società. E un tentativo di leggere i rapporti tra questa società e la mafia non può prescindere dal pallone».
Che fa, butta in inchiesta anche ventidue in pantaloncini che corrono dietro a una palla?
«Quello che per molti è divertimento, per altri è un arricchimento personale e sociale. Le mafie si sono accorte delle potenzialità del calcio. E le sfruttano».
Be’, detta così a lottare per lo scudetto dovrebbero essere le squadre dei casalesi, dei boss mafiosi, dei calabresi della ’ndrangheta. E invece…
«E invece no. Ché l’interesse delle mafie è transitorio. Il problema è proprio questo».
Quale?
«Il Sud non avrà mai un Chievo. Non avrà mai un miracolo sportivo come accade al Nord. Le mafie, qui, fanno male anche al calcio. E i boss oltre la serie C2 non vogliono andare».
Raffaele Cantone, in 55 minuti e 48 secondi di conversazione, si dice almeno quattro volte «felice» di stare dov’è, al Massimario della Cassazione. Quando parla, però, il tono è quello di un ufficiale spostato dal fronte al quartier generale che non vede l’ora di rimettersi l’elmetto. I clan di Gomorra, quelli che ha sempre combattuto, continua a studiarli anche dal Palazzaccio di piazza Cavour a Roma. E ora ha preso a studiare anche «medici, architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, banchieri, funzionari locali e uomini delle istituzioni». Sono «I Gattopardi», titolo del libro che ha scritto con Gianluca Di Feo (Mondadori) e che ha presentato ieri.
Raffaele Cantone, ci spiega perché è così sicuro che il Sud non avrà mai un Chievo?
«Semplice. Quella è una squadra del quartiere di una città, Verona, che ha meno abitanti di molti paesi della Campania. Eppure è arrivata in serie A».
E questo con le mafie che c’entra?
«Qui molte squadre piccole, com’era piccolo il Chievo una volta, sono in mano ai boss».
Che se ne fanno?
«Hanno un interesse al controllo sociale. E quale miglior strumento per creare consenso che non sia il calcio?».
Ma se le squadre non fanno molta strada alla fine…
«Alla fine gli servono comunque, perché il calcio è un modo per entrare in contatto con istituzioni, società civile. Allo stadio ci vanno sindaco, assessore, consigliere regionale. Sanità e imprese rappresentano lo strumento di vantaggio economico, il calcio serve ad avvicinare settori altrimenti distanti».
Insisto, se fosse così sa quanti «miracoli» sportivi?
«Lo sport per i boss è un autobus da cui scendere a un certo punto. Le mafie non ci vogliono rimettere soldi e soprattutto non vogliono uscire all’esterno per evitare troppi controlli».
Esiste un limite?
«Sì, non vogliono andare oltre la C2. Non programmano. E impediscono agli imprenditori veri di pianificare. Tutto questo ha un effetto disastroso sulla crescita delle squadre».
Insomma, i boss incassano «adesioni» con il calcio?
«Certo. E la storia di Hamsik è emblematica».
Hamsik? E che avrà fatto mai?
«Niente. Ma mentre il Napoli cerca addirittura di allontanarsi dalla città, lui, un bravo ragazzo, uno casa e chiesa, viene fotografato con un criminale».
Che doveva fare, chiedergli il certificato penale?
«No, per lui non vale niente, è una foto tra le tante. Vale invece per quel camorrista: è la prova che riesce ad arrivare ad Hamsik, a chiunque. È un segno di potere».
Foto in giro con criminali ce n’erano anche di Maradona, dov’è la novità?
«Qui è peggio. Maradona conosceva esponenti della camorra. Hamsik invece è anni luce distante da quel mondo, e questo significa che oggi c’è chi lavora per mettere in contatto due realtà così distanti. Io per far fare a mio figlio una foto con Hamsik ho dovuto chiedere non so quante autorizzazioni. E quello, il camorrista, come c’è arrivato?»
Lo sa?
«Grazie a uno dei gattopardi, gente in giacca e cravatta che media offrendo ai clan la possibilità di mettersi in mostra».
È questo che la spaventa? I nuovi mediatori?
«È questa la nuova mafia. I gattopardi sono quelli che la criminalità organizzata non la subiscono, ma la utilizzano come sistema che risolve questioni. Prima c’era la camorra predatoria, oggi c’è il mafia service. E questi due mondi, quello criminale e quello della società presunta civile, non dialogano direttamente. Si servono di mediatori».
Il federalismo favorirà questi mediatori?
«Il federalismo avvicina il centro della spesa agli interessi del clan, ma questo non deve diventare un alibi per non attuarlo. È un problema di controllo e classe dirigente. E la selezione dei politici non si può far dipendere dai magistrati».
Dicono che è proprio ciò che fate.
«La politica usa come paravento le iniziative giudiziarie per non fare pulizia al proprio interno. Il concetto è che la presunzione di innocenza ha grande valore nel mondo penale, ma vale zero in quello politico. Se uno viene assolto, se anche le sue frequentazioni dubbie non si riescono a provare in aula, questo non significa che sia una figura spendibile. La politica dovrebbe arrivare prima delle inchieste».
Ecco, a proposito di inchieste. Quanto ha inciso Roberto Maroni nella cattura dei latitanti?
«Moltissimo. Non ricordo un ministro venuto tante volte a Caserta a metterci la faccia. Sembrano gesti simbolici, invece sono più importanti di qualsiasi piano sicurezza».
Saviano ha detto che Maroni ha utilizzato con lui la stessa espressione di Francesco Schiavone, il capo dei Casalesi.
«Roberto è stato infelice nel paragone, ma il ministro ha sbagliato a ritenere quell’accusa politica un’offesa personale».
Sempre in quei giorni, il capo della squadra mobile di Napoli ha fatto portare via Antonio Iovine da poliziotti a volto scoperto. Dice che se bisogna chiedere coraggio ai cittadini non bisogna mostrarsi incappucciati ai boss. Giusto?
«Quella di Pisani è stata una scelta intelligente nel caso concreto. Il nuovo piano contro le mafie, però, prevede gli agenti infiltrati, quindi i loro volti dovranno restare nascosti. Ciò detto, Pisani ha accettato anche le critiche che gli sono state mosse con grande senso istituzionale».
Almeno lui…
«Be’, anch’io posso dire di averle sempre accettate».
Sì? Provi a criticare un pm…
«Il problema c’è, è vero. E la stampa dev’essere un organo di garanzia nei confronti delle indagini: non ci vedo nulla di male se muovono delle critiche in maniera onesta. C’è bisogno di giornalisti che pongano questioni sulle inchieste, e oggi invece spesso noto una stampa ridotta a un velinismo acritico, a passare carte degli uffici giudiziari e di polizia e basta».
Scusi, ma come funziona ’sta storia. Guai a criticare i pm, e poi è la stampa che passa veline? Ha del paradossale.
«È una tendenza oggettiva, e riguarda la possibilità di procurarsi gli atti giudiziari. Esiste un meccanismo di sudditanza psicologica, per cui se un magistrato mi passa una carta, non ne criticherò l’inchiesta. E lo stesso vale per avvocati e forze dell’ordine, che non censurerò mai. Sono debiti di favore. C’è una grande ipocrisia, e penso sia giunta finalmente l’ora di dare ufficialmente gli atti d’inchiesta pubblici ai giornalisti».
E come?
«Riconosciamogli il diritto alle copie, come agli avvocati».
C’è un ultimo giallo da svelare: è vero che Fazio e Saviano l’avevano invitata a «Vieni via con me»?
«Sì».
Perché non c’è andato?
«Gliel’ho sconsigliato io stesso. Di più non posso dire».
Cosa avrebbe voluto fare?
«Sarei stato felice di leggere anch’io un elenco».
Il titolo?
«Tutti i pm che hanno combattuto i Casalesi».
Ce l’ha a memoria?
«Carlo Visconti, Federico Cafiero de Raho, Franco Roberti, Francesco Curcio, Francesco Greco, Antonello Ardituro, Alessandro Milita, Marco Del Gaudio, Annamaria Lucchetta, Giovanni Conzo, Raffaello Falcone, Catello Maresca, Cesare Sirignano».
Gianluca Abate (dal Corriere del mezzogiorno.it)

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