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Che noia la morale
su Maradona

Caro direttore, il solo fatto che, a distanza di oltre venti anni da quando partorimmo quella «lucida follia», ci sia qualcuno che ancora continui a parlare del Te Diegum mi sembra molto più interessante delle considerazioni— per la verità tanto acide, quanto ovvie — contenute nello scritto di Massimo Galluppi («Quelli di Maradona»), sul Corriere del Mezzogiorno di ieri.  In questi anni il moralismo di maniera di tanti intellettuali con la puzza sotto il naso, soprattutto di sinistra, non ci ha risparmiato critiche e sberleffi, probabilmente perché all’epoca non li coinvolgemmo nella nostra iniziativa, intelligente, provocatoria e dallo straordinario impatto mediatico, o forse perché non hanno mai respirato l’atmosfera di uno stadio. Tirare ancora fuori dal cilindro dei luoghi comuni la differenza tra uomo e calciatore, piccolo uomo grande campione, è una cosa sorprendente data l’autorevolezza del prestigiatore di turno. Per la verità bisogna dare atto che Galluppi, e su questo per lo meno è davvero stimolante, si spinge oltre e mette persino in discussione i comportamenti in campo dell’atleta Maradona. Una primogenitura originale che nemmeno il più padano e leghista dei giornalisti sportivi aveva osato scrivere quando Diego ridicolizzava, con la sua straordinaria genialità, persino il nascente berlusconismo calcistico e Arrigo Sacchi che ne era il profeta. Parlare bene del calciatore Maradona era talmente banale e prevedibile che il Te Diegum non avrebbe avuto alcun senso. E anche noi intellettuali da strapazzo, appassionati di calcio, che preferiamo il San Paolo ai convivi colti e ai salotti napoletani, quelli dove si decidono carriere politiche e accademiche, ci saremmo accontentati di aderire a qualche circoletto ultras.
Come è facile, inutile e scontato il lungo elenco di vizi privati. Maradona cocainomane, evasore, puttaniere. Sarebbe semplice, ma qualunquista, rispondere a Galluppi: chi è senza peccato scagli la prima pietra, soprattutto dai divani di certi «salotti».
Il problema però è un altro, senza dubbio più interessante, e riguarda la peggiore e ipocrita condanna inflitta a Maradona in questi anni, quella di dover essere un esempio. Esempio per chi e soprattutto perché? Sono ben altri i ruoli, le cariche e le responsabilità che imporrebbero vite e comportamenti esemplari, non certo quelli di un giocatore di calcio seppure unico e irripetibile nella sua grandezza. Diego, oltretutto, non ha mai preteso di esserlo e anzi ha sempre tentato di sottrarsi a questa gabbia da altri costruita su di lui. Una esistenza spesa a fare testa o croce con la vita, mettendoci sempre la faccia e pagando in prima persona. Non si è mai nascosto, non si è difeso con bugie e scorciatoie come invece hanno fatto ben più illustri esempi mancati. È sempre risorto più forte e amato di prima, dimostrando così di essere uomo capace e tenace, prima che uno straordinario calciatore. Mai una polemica autoreferenziale e gratuita, leader indiscusso in campo e fuori, amato e rispettato da compagni e avversari, coraggioso e intelligente.
Non abbiamo la sindrome populista, che forse attanaglia alcuni nostalgici intellettuali sinistresi, ma è davvero singolare nel calcio di oggi, appiattito, convenzionale e omologato trovare qualcuno, come Diego Maradona, sensibile e attento non solo al portafoglio e alle copertine dei giornali sportivi ma anche alla vita reale, quella della gente e della strada. Lo abbiamo visto marciare con i seguaci di Chavez, diventare amico di Fidel Castro nel momento di maggiore isolamento del leader cubano, assumere posizioni scomode e difficili, anche contro i vertici mondiali della Fifa, senza averne nessun bisogno e nessun ritorno. E, proprio in questi giorni, unico tra tanti, arrivare in Sudafrica per il tanto decantato Mundial del riscatto dei popoli africani e chiedere di incontrare Mandela, invece di disquisire solo di tattiche e formazioni. Con invidiabili doti telepatiche Galluppi bolla il nostro virus maradoniano come identità nel disprezzo di regole sportive e civili, tipiche a suo dire, dei napoletani. Ebbene bisognerebbe intendersi su quali siano le regole e su cosa significhi trasgredirle. Certo Maradona ha infranto una regola molto diffusa in questa città: ha promesso e hamantenuto la promessa. Ci ha consentito di vincere senza mortificare il genio e la individualità, ha esaltato la creatività e le qualità del singolo senza appiattirsi in un apparente ordine collettivo, forse politicamente corretto, ma improduttivo e incolore, che serve a mimetizzare le mediocrità e a far vincere non chi merita, ma chi scodinzola ai piedi dei potenti.
Confesso però che leggendo la chiosa del suo pezzo, la cupa profezia e l’anatema lanciato sul futuro di Diego commissario tecnico della nazionale biancoceleste, è venuta effettivamente fuori la parte peggiore della mia napoletanità. Ho cominciato a toccare, senza pudore, tutti gli amuleti che conservo per le grandi occasioni nei cassetti della mia scrivania. Tra questi un cd dove è inciso un vecchio tango che si chiama Palermo Vieyo, e ho sognato che il vecchio Martin Palermo tra un mese possa alzare al cielo la coppa più bella e dedicarla a lui, grande capitano non giocatore, alla faccia dei tanti tirapiedi.
A proposito, qualcuno forse dovrà spiegare a Galluppi chi è Martin Palermo perché gli intellettuali veri e puri non possono occuparsi di queste facezie…
Claudio Botti
dal Corriere del Mezzogiorno

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