Dal Corrmezz. Essere napoletani è sinonimo di serietà, affidabilità, laboriosità. La risacca culturale ha prodotto la Napoli fumettistica. Ora “il romano” ha preso casa
Il romano. Che è sempre un appellativo più cortese del pappone, va riconosciuto. Ma nella Napoli arroccata di oggi, l’appellativo “il romano” è un dispregiativo. Aurelio De Laurentiis spesso è stato chiamato così da una nutrita fetta della tifoseria. Per rimarcare la distanza antropologica del presidente del Calcio Napoli dal ventre della città. In realtà le origini contano poco. A voler dar sfoggio di conoscenze, i De Laurentiis sono originari di Torella dei Lombardi terra che diede i Natali a Sergio Leone. Ma, ripetiamo, è un finto problema.
La Napoli fumettistica – che ahinoi ha preso il sopravvento culturale – riconosce solo chi si genuflette alla sua presunta grandiosità e alla infinita bontà del suo popolo. Se non rimani in miseria per la città che ti ha dato l’opportunità di guidare la sua squadra di calcio, vuol dire che non la ami. Questo è il succo del pensiero. De Laurentiis si è invece reso colpevole del reato di lesa maestà: ha osato guidare la società calcistica come se fosse un’impresa, con equilibrio e oculatezza, dando sempre la priorità alla solidità dei bilanci. E allo stesso tempo raggiungendo risultati straordinari, anche al netto dell’eventuale vittoria del campionato. Ha rilevato il Napoli in un’aula del tribunale fallimentare e lo ha portato a competere ad altissimi livelli in Italia e a livelli importanti in Europa. Il suo modo di guidare il Napoli è un riferimento virtuoso per chiunque parli di calcio, in particolar modo all’estero. Negli Stati Uniti sarebbe considerato un modello. A Napoli invece il dibattito verte su temi fondamentali che gli anglosassoni fanno fatica a comprendere: non gli piace la pizza, preferisce quella romana. O, ancora: non è tifoso. Sembrano gag comiche, invece è la triste realtà in cui è sprofondata quella che era una delle capitali del Mediterraneo.
Eppure, come rivelato in anteprima dal Corriere del Mezzogiorno, sta per cadere anche il baluardo della romanità. Ora De Laurentiis prende villa a Napoli, a Posillipo. Non lontano da quella via Scipione Capece che ospitò per sette anni Diego Armando Maradona. Notizia che assume un significato importante, sia dal punto di vista tribale sia dal punto di vista della prospettiva del Calcio Napoli. Perché, al fondo, anche i fondamentalisti della linea anti-De Laurentiis sono preoccupati al pensiero che prima o poi Aurelio possa vendere. Pochi mesi fa volevano spedirlo a Bari (sì la città ha partorito anche l’imperdibile movimento A16), ora stanno zitti perché la campagna acquisti più contestata degli ultimi decenni ha partorito uno squadrone raramente visto da queste parti.
De Laurentiis fa bene a rivendicare la sua napoletanità. E a ripetere che lui ama Napoli, che si sente napoletano, che i De Laurentiis sono da sempre napoletani. Perché essere napoletani è tutto il contrario dell’essere macchiette per trasmissioni televisive di seconda serie. Essere napoletani è sinonimo di serietà, affidabilità, laboriosità, come sa chiunque abbia lavorato fuori città. Negli anni Novanta, quando un quotidiano locale del gruppo Repubblica era in difficoltà, il principe Caracciolo pronunciava la fatidica frase: «Qua ci vuole solo un napoletano». Quello che oggi impera in città è una visione caricaturale, per nulla rappresentativa. Una resa senza condizioni allo stereotipo più spicciolo. In “Napoli milionaria” Eduardo raccontava che Napoli era anche una madre che durante la guerra tiranneggiava col mercato nero dei medicinali e non si fermava nemmeno davanti ai bambini in fin di vita. È sempre stata una città aperta al confronto e allo scambio con le altre culture: Pino Daniele ne è un esempio, ma ce ne sono a centinaia. Quel che ha fatto De Laurentiis con calciatori provenienti dalla Georgia, dalla Corea del Sud, dalla Nigeria, dal Camerun. In poco meno di vent’anni ha fatto sì che Napoli diventasse sinonimo di solidità, competenza e qualità. Ha stracciato il presunto Nord produttivo, e lo ha fatto sul terreno dell’organizzazione e della visione imprenditoriale. Questo vuol dire essere napoletani. Non soprannominare Ciro o Gennaro chiunque metta piede da queste parti.
(articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno di sabato 18 febbraio 2023)