«Ho sempre dovuto fare i conti con la mia infanzia, i lutti, le nottate in bianco. Quando ho lasciato il calcio mi sono sentito perso, i fantasmi sono tornati».
Il primo novembre sarà in libreria «Mi chiamavano Rombo di Tuono», il libro che Gigi Riva ha scritto con l’editorialista de La Stampa, Gigi Garanzini. Il quotidiano torinese ne regala qualche anticipazione. Oggi pubblica il racconto che Riva fa della depressione che lo ha accompagnato nel corso della sua vita e che si è riacutizzata dopo ave lasciato il calcio.
Riva si racconta:
«Non sono mai stato un chiacchierone. Mi piacciono i silenzi, mi piace semmai parlare con me stesso. Il silenzio è stata una parte importante della mia vita, che quand’ero troppo giovane mi ha detto: «Arrangiati». E io mi son dovuto arrangiare. Mi sono chiuso, questo sì. Ma non è vero che sono diventato triste o malinconico: ho dovuto semplicemente fare i conti con l’infanzia che ho avuto, con i lutti, con le nottate a occhi spalancati aspettando il sonno che non arrivava».
Il calcio lo ha aiutato tanto, ma quando poi l’avventura sul campo è finita, ha dovuto fare i conti con quella che fatica a chiamare depressione.
«Il calcio mi ha aiutato, mi ha dato tanto per non dire tutto. Ma quando sono uscito per sempre dal campo, dal sogno che si era avverato e aveva tenuto lontani, entro certi limiti, i fantasmi notturni, ho dovuto cominciare a fare i conti, fino a lì sempre rimandati, con quella parola. Depressione. Che fatico persino a pronunciare, perché significa farmi del male. Il calcio, la carriera, i gol erano stati la reazione che mi serviva: prima una spinta, poi un propellente vero e proprio a mano a mano che arrivavano i successi. Venendomi a mancare tutto questo di colpo, non con un declino progressivo come avevo sempre pensato sarebbe successo, mi sono sentito perso».
A salvarlo, nel momento peggiore, è stata la nascita dei suoi figli, che hanno ridato un senso alla sua vita. La depressione a quel punto è regredita, anche se non scomparsa.
«è regredita, tornando a manifestarsi ogni tanto ma non in quella misura. Un problema di testa con cui ho imparato a convivere. Mai del tutto, perché quando si rifà vivo rimane un brutto avversario da affrontare. Mi vien da dire che invecchiare non aiuta, per tante ragioni, ma è vero fino a un certo punto: avevo poco più di trent’anni quando l’ho conosciuta nella sua forma peggiore. Un altro periodo brutto, poco meno di dieci anni fa».