ilNapolista

Belen Rodriguez: «Se aspetti non arriva niente. Bisogna andare incontro alle cose»

A Sette: «Mio padre era protestante. Non potevo mettere gonne corte, ascoltare musica, non potevo fare niente. In Argentina a fare paura era la vita quotidiana»

Belen Rodriguez: «Se aspetti non arriva niente. Bisogna andare incontro alle cose»

Su Sette, settimanale del Corriere della Sera, un’intervista a Belen Rodriguez in cui la showgirl parla delle sue origini. Racconta la sua vita, non sempre facile, nel suo Paese di origine, l’Argentina. E anche la sua filosofia:

«Per un po’ ho anche provato la strategia dell’attesa: non ha funzionato. Non arrivava niente. Bisogna andare incontro alle cose».

Racconta i suoi primi impieghi in Argentina:

«A diciotto anni distribuivo volantini del cinema per strada. A diciannove facevo la pizzaiola in un ristorante».

Il padre era un venditore di attrezzi agricoli e di giardinaggio. Quando Menem salì al potere, l’Argentina cadde in una profonda crisi economica e la famiglia di Belen, come tante altre, perse la casa.

«Da un giorno a un altro perdiamo la casa, senza poter prendere niente: divani, letti, piatti, asciugamani. Andiamo ad abitare in campagna, non lontano dalla favela».

Su Belen bambina:

«Siccome mio padre frequentava la chiesa protestante, noi figli avevamo molti divieti, tra cui: vietato vedere programmi televisivi con contenuto mondano e non religioso. Mio padre — sempre per le regole della chiesa protestante — non mi permetteva di andare a ballare, né di partecipare ai viaggi di scuola. Vietato mettere gonne corte, vietato ascoltare musica, tranne le canzoni religiose. Insomma, non potevo fare niente, a parte frequentare la chiesa e prendere parte alle iniziative religiose tipo le escursioni».

A quei tempi, a fare paura era la vita quotidiana.

«La vita quotidiana. Il fatto che la gente non avesse da mangiare. Saccheggiavano i supermercati, entravano nelle case, rubavano e uccidevano le famiglie».

Belen racconta che un giorno a casa sua arrivarono in otto.

«Un giorno arrivano da noi. In otto, armati e drogati di colla. Io ero in giardino, mi prendono per i capelli, mi trascinano dentro. Ci legano, pistole puntate alla testa. Ci rubano dalle tazzine di caffè alle forchette. Dalla televisione alle lenzuola. Vestiti, scarpe, mutande, il mio book fotografico da modella. Con lo stipendio del volantinaggio avevo comprato un paio di stivali a rate. Neri, con le borchie, il mio orgoglio. Così, mentre loro saccheggiano casa, io, con le mani legate, riesco a spostarmi e a prendere gli stivaletti per nasconderli nella fessura del divano letto».

Un’altra persona esibirebbe un passato difficile come il suo.

«Non c’è niente da esibire».

Poi decise di venire in Italia, aveva già un contratto di modella.

«In Argentina avevo posato in costume per un giornale, e quando la chiesa era venuta a saperlo, ci aveva scomunicato».

Dispiacere?

«Liberazione. Vedevo tanto fanatismo nei divieti e negli obblighi come quello di donare il dieci per cento dello stipendio, cosa che mio padre faceva».

Il passaggio alla tv?

«Trovo l’indirizzo di un’agenzia di moda di Bologna dove vado di nascosto. Quindi, tramite l’agenzia, inizio a fare provini per la televisione. Da quel momento furono tutti sì».

Il regalo fatto ai suoi genitori coi primi guadagni?

«La casa. Una casa nel posto dei ricchi, con sicurezza h 24 e cancelli. A quel punto inizio a dormire la notte. La mia famiglia era al sicuro. Finalmente li sapevo al sicuro».

ilnapolista © riproduzione riservata