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Osimhen: «I giocatori africani non sono solo storie tristi. Sono stato povero, ma sono andato avanti»

A Repubblica: «Mi criticano perché sono permaloso, ma io sono felice solo se do il mio meglio, il calcio è il 97% della mia vita. Razzismo? Ha ragione Thuram»

Osimhen: «I giocatori africani non sono solo storie tristi. Sono stato povero, ma sono andato avanti»
Db Bologna 17/01/2022 - campionato di calcio serie A / Bologna-Napoli / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Viktor Osimhen

Su Repubblica Emanuela Audisio intervista l’attaccante nigeriano del Napoli, Victor Osimhen. Racconta l’infortunio subito in Inter-Napoli, lo scontro terribile con Skriniar, l’operazione al volto.

«Ho sentito subito che la faccia mi era esplosa. E appena mi sono toccato sulla guancia sinistra non avevo più sensibilità. Ho avuto problemi anche a dormire, se mi giravo sul quel lato, faceva male. Però ho recuperato le forze, trascinato dalla voglia di giocare e di migliorare proprio sui colpi di testa. Non sono tipo da frenare la mia esuberanza, mai fatto calcoli, anzi ho sempre cercato di rimettermi in piedi subito, senza piangermi addosso. Io salto, scarto, scatto. Non ho paura di farmi male, e se perdo mi arrabbio. Sono molto suscettibile su questo, non mi arrendo».

Racconta la sua infanzia a Lagos, la morte della madre, la difficoltà del padre a trovare lavoro, i lavori modesti trovati da lui e dai fratelli per sopravvivere. Lui, come è noto, puliva grondaie e tagliava erba.

«Mio fratello più grande, Andrew, ha rinunciato a studiare, per mantenere me appena sono entrato nella scuola calcio. Devo riconoscenza a lui e alla mia famiglia. Le radici sono importanti».

La Audisio gli chiede quale sia la cosa più difficile per un calciatore africano che arriva in Europa. Risponde:

«Per me è stato il freddo. Sono andato al Wolfsburg e giocavo su campi spesso ghiacciati. Soffrivo, avevo le dita dei piedi rattrappiti, non riuscivo ad esprimermi. Mi ha molto aiutato con i suoi consigli Mario Gomez».

L’operazione alla spalla, i provini in Belgio e i rifiuti, poi Charleroi e Lille.

«Se ho mai dubitato di potercela fare? No, non mi sono nemmeno mai posto la domanda, che continua a sembrarmi un lusso. Sentivo obblighi e responsabilità verso la mia famiglia. E a proposito dell’infanzia difficile, basta. Non ne posso più. L’ho già detto mille volte. Lo sanno tutti che appena vedo bambini vendere acqua ai semafori non provo né antipatia né insofferenza. Non potrei. Ma basta raccontare i giocatori africani solo come vittime, come storie tristi. Siamo bravi calciatori, io voglio migliorarmi, in attacco e difesa, imparare ad aiutare la squadra in ogni parte del campo. Sono stato un bambino povero? Sì, ma ora sono qualcosa di più. Altrimenti mi inchiodate a un passato che non rinnego, ma che non tiene conto di come sono andato avanti. Tengo alla qualità, alla tecnica, voglio diventare più bravo».

Il rapporto con Napoli.

«Abito a Posillipo, al piano terra. E anche se posso passare per ingenuo non mi immaginavo una città così calda e pazza per il calcio. Solo ora mi rendo conto di come possa essere stato difficile per Maradona trovare un po’ di intimità e sopportare la pressione».

Dice che se il Napoli vincerà qualcosa di importante inventerà una danza apposta per festeggiare.

«Mi piacerebbe vincere insieme: Napoli, il Napoli e io. Condividere un viaggio. Ma per lo scudetto devo essere molto di più di un individual player. Allora sì che mi darebbe proprio soddisfazione e trovo che per la città sarebbe strepitoso. Il calcio di Serie A lo trovo competitivo, ogni domenica c’è una squadra che può sbatterti fuori. Mi criticano perché sono permaloso, perché non lascio correre, né un’occasione né un commento, ma io sono felice solo se do il mio meglio, il calcio è il 97% della mia vita, e se qualche volta sui social eccedo, lo faccio solo perché cerco leggerezza. Sono un ragazzo di 23 anni, avrò pur diritto a non essere profondo».

E sul razzismo negli stadi:

«Ho sentito gli insulti. Gente che dice quelle cose non merita di entrare in uno stadio. Ha ragione Thuram, i primi ad uscire dovrebbero essere i giocatori bianchi, perché consapevoli di un’ingiustizia. Ma nello stadio ci sono anche quelli che ti applaudono, che si scusano per gli altri. E a loro dico grazie perché almeno non fanno giocare l’indifferenza».

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