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Vasco Rossi: «È stata mia madre a farmi cantare, le mamme fanno di te quello che vogliono»

Al Venerdì di Repubblica: «Finire in galera per droga e fui anche contento, mi è servito per scendere dal pero. Dopo la galera, salivo sul palco lucido»

Vasco Rossi: «È stata mia madre a farmi cantare, le mamme fanno di te quello che vogliono»

Sul Venerdì di Repubblica una lunga intervista a Vasco Rossi, che tra qualche mese compirà 70 anni.

«Non me lo sarei mai aspettato di arrivarci. Miravo a Kurt Cobain, come genere. Mi sento un sopravvissuto, per meglio dire un supervissuto, per quantità e qualità delle esperienze. Ho avuto una vita incredibile, e me la sono cercata proprio così come è stata. Non ho fatto il commercialista, voglio dire. Come sognava mio padre. È stata mia madre a farmi cantare, le mamme fanno di te quello che vogliono, a dodici anni ero già una piccola star. Ho avuto la mia prima chitarra, era un gioco, poi è diventata un’arma, non potevo andare in giro senza, siamo diventati inseparabili. Ho cominciato a scrivere le prime canzoni, genere “cantautore”. Da lì in poi ogni esperienza, ogni incontro, ogni cosa che mi succedeva, l’ho usata per salire su un palcoscenico, l’unica cosa che mi interessava era quella. Ho usato me stesso e anche molto abusato di me stesso, ma non è che l’ho fatto così, tanto per farlo. C’era un fine molto preciso, sempre quello, ben chiaro: volevo stare sul palco per arrivare al cuore della gente. Più gente possibile».

Racconta l’infanzia e l’adolescenza a Zocca, un paesino in provincia di Modena, a 758 metri dal livello del mare, da cui sognava di scappare.

«In certi momenti credevo di impazzire, lassù. Per ingannare il tempo ho scritto anche una messa rock, d’accordo con il prete, non so se aveva capito bene – mi piaceva il coro delle ragazze del paese. Albachiara era una di loro».

Poi due anni dai salesiani a Modena, le fughe a Bologna dalla zia, finché suo padre si arrese e lo iscrisse al Tecnico Commerciale, dove arrivò il diploma. Racconta di dovere tutto a Bologna.

Cantare è un mestiere.

«È un mestiere. Le canzoni sono come le pagnotte, devi farle una per una. (…) E il narcisismo non basta, per stare sul palco, l’ansia da prestazione è micidiale. Bevevo molto, prima dei concerti. Adesso ho smesso di bere prima, adesso bevo dopo (ride)».

Continua dicendo che ha fatto tesoro di tutte le esperienze, anche di quelle negative.

«Nell’83 sono finito in galera per droga, non dovrei dirlo ma ero anche contento, mi è servito per scendere dal pero. Mi hanno arrestato il Venerdì Santo e il giudice doveva pure fare le sue vacanze di Pasqua, poveretto, e dunque è venuto a interrogarmi solo il martedì. Mi sono fatto quattro giorni di isolamento, ho rivisto tutto, ripensato tutto, sesso droga e rock’n’roll».

Un’esperienza che lo ha cambiato.

«Dopo la galera salivo sul palco lucido. I miei si facevano tutti, io ero l’unico lucido. Mi sono accorto di cantare meglio. Certo, da lucido, proprio perché sei lucido, prima di salire sul palco la paura è tremenda. Ma passa subito, basta un attimo e pensi solo a cantare».

Il vero prezzo da pagare è la fama.

«Sì, quello è un prezzo vero, ed è un prezzo molto alto. La fama è una giostra dalla quale non puoi più scendere, un po’ di tregua me la prendo solo quando vado a Los Angeles, o in un paese dove nessuno mi conosce. A Bologna ho provato a uscire con una parrucca ma mi hanno sgamato subito».

 

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