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«Il calcio è libertà», la giornalista del NYT racconta le sue partite in strada con gli sconosciuti

Geneva Abdul è un’ex calciatrice che scrive da Londra: “Ho usato il calcio per orientarmi, per sentirmi meno estranea ovunque andassi”

«Il calcio è libertà», la giornalista del NYT racconta le sue partite in strada con gli sconosciuti

Geneva Abdul è una donna, tanto per cominciare. Non ha la pelle bianca. E scrive per il New York Times da Londra. Ed è un’ex calciatrice. Quando è possibile (prima della pandemia, e ora nell’Inghilterra in fase di riapertura) gioca a pallone al parco, con chiunque, con chi capita. Uomini e donne, inglesi e stranieri, grandi e bambini. E racconta sul NYT questa concentrazione di libertà che il calcio riesce a esprimere in maniera del tutto naturale. In un pezzo bellissimo, che aggiunge alla nostra retorica dello sport da strada, un valore in più: il sentimento di multiculturalismo che si respira(va) all’estero, anche attraverso la socialità condivisa con lo sport spicciolo, quotidiano. Il gioco.

“In una calda giornata primaverile a Londra dell’anno scorso, sono partita per una corsa a Hyde Park, con un pallone da calcio incastrato sotto il braccio. Il paese, come il resto del mondo, stava ancora facendo i conti con il Covid-19; per settimane ero stata confinata nel mio appartamento, contando i giorni che mancavano alla fine delle restrizioni. Ora che finalmente ci è stato concesso del tempo all’aperto, non vedevo l’ora di reclamare il mio posto preferito, il campo da calcio.

“Nel parco vicino al mio appartamento, mi sono seduta accanto a un gruppo di ragazzi francesi che giocavano a pallone. Alla fine mi sono unita a loro. In pochi minuti abbiamo messo su una partita usando le nostre borse come pali della porta e gli alberi per indicare le linee laterali. Ho sperimentato una leggerezza strana e familiare. In quel momento con quei ragazzi francesi, ho sentito quanto fosse universale questo gioco. Qui su questo pezzo di erba e in tutto il mondo, sconosciuti di ogni estrazione e livello di esperienza giocano a calcio, o foot de rue, o pelada o cascarita. E lo fanno su cemento, sabbia, strade acciottolate, ovunque possono“.

“La mia abitudine di giocare è iniziata sul campo da tennis in cemento della mia scuola elementare a Toronto, dove ero nuova e senza amici, appena trasferita dalla periferia. Quando sono entrata per la prima volta in classe, ho sentito un altro bambino sussurrare: “Parla anche inglese?”. (…). Alle medie, l’allenatore di calcio ha deciso che un’altra ragazza e io giocavamo abbastanza bene da unirci alla squadra maschile. Non è durato: un pomeriggio prima del calcio d’inizio, l’allenatore avversario, stordito dalla presenza di due ragazze, ha sostenuto che non potevamo giocare. “I miei ragazzi saranno distratti”, ha detto incredulo. Per evitare che la nostra squadra dovesse perdere la partita, noi due ci siamo fatte da parte. Dopo quel giorno ho lasciato del tutto la squadra, ma non ho mai smesso di giocare”.

“A 14 anni la mia carriera calcistica stava decollando. Sono entrato a far parte della squadra provinciale dell’Ontario, e mi sono ritrovata a giocare a livello internazionale per Trinidad e Tobago mesi prima che ospitasse una Coppa del Mondo giovanile. Giocare in quella squadra mi ha riportato al luogo di nascita di mio padre, vicino alla capitale, Port of Spain”.

Ho giocato con gli estranei ovunque, usandolo il calcio come un modo per orientarmi, per sentirmi meno estranea ovunque andassi. Era come tirare una corda allentata, sbrogliarmi fino a quando tutto ciò che mi rimaneva era l’essenziale. Liberata dalla pressione di esibirmi, liberata dalla paura di fallire. Con quella libertà arrivò una sorta di chiarezza: la barriera tra la persona che gli altri vedevano e quella che io immaginavo di essere si sarebbe gradualmente ammorbidita, poi si sarebbe dissolta del tutto. Anni dopo che un intervento chirurgico al ginocchio aveva messo fine alla mia carriera calcistica, mi sono trasferita a Londra e ho vagato a Regent’s Park, interrompendo un mare sudato di corpi (di solito maschili) per chiedere, con totale sicurezza: “Posso giocare con voi?”.

Dalla spiaggia di Copacabana a Rio de Janeiro a una lastra di cemento a Macqueripe Beach a Trinidad, alla strada acciottolata vicino a un hotel in Venezuela o un parco a Londra, c’è sempre stato qualcosa di confortante nel giocare con perfetti sconosciuti, persone che posso essere immediatamente rivali o in sintonia, persone verso le quali non ho alcun obbligo al di là del gioco. In pochi istanti, il mio corpo si rivela. Con una rapida forbice dei piedi, una furtiva rotazione sulla palla o un’improvvisa esplosione in un’altra direzione, posso essere audace e implacabile in un modo che raramente sono. Rispondo e devio, schernisco e lodo, vinco in astuzia, cedo e spingo. La mia iniziale reticenza viene presto sostituita da buffetti sulla pelle e abbaiare di ordini. Uno sguardo fugace dirige qualcuno, e una leggera inclinazione del mio corpo ne ostacola un altro. Sento una vampata di soddisfazione quando il mio corpo si contorce e sussulta di riflesso, come se fosse guidato da qualcuno diverso da me. Faccio le cose in modi in cui gli uomini sul campo non credono mai del tutto che io, una donna, possa fare“.

Il romanziere belga Jean-Philippe Toussaint una volta scrisse: “Il calcio, come la pittura, secondo Leonardo da Vinci, è una cosa mentale; è nell’immaginazione che viene misurato e apprezzato”. Siamo condizionati a credere che anche il calcio sia nei limiti del nostro controllo. Innalziamo pali della porta, tracciamo confini, arruoliamo arbitri severi e realizziamo superfici di gioco incontaminate. Ancora oggi, l’intera cultura dello sport può essere umiliante ed escludente per le donne; molti dei miei ex compagni di squadra che ora giocano professionalmente vengono pagati meno di un uomo e non hanno le stesse sponsorizzazioni o strutture o tempo di trasmissione. Ma quelle partite improvvisate che ho giocato con sconosciuti trascendono tutto questo. Con loro, posso immaginarmi capace di tutto”.

“Pochi giorni fa sono passata in bicicletta per lo stesso tratto d’erba di Hyde Park dove ho giocato quasi un anno fa. Penso ai ragazzi e a come continuavamo tutti a tornare a giocare, giorno dopo giorno. Come pur parlando lingue diverse, ne abbiamo condivisa una fisica. Penso a questa raccolta di sconosciuti, qui e altrove – agli innumerevoli volti in continua evoluzione, a tutte quelle persone che ho incontrato al parco, per strada o in spiaggia, che non mi negano mai l’opportunità di mostrare quello che so fare”.

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