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Mi manca da morire Pesaola

Diceva: “A Napoli non ti senti mai solo. Napoli è stata amore a prima vista. Bella da riempire il cuore. Non mi sento più argentino, sono napoletano”.

Mi manca da morire Pesaola

Mi manca da morire il petisso. Quelle sere di pizze e pallone nella sua casa di via Manzoni, le volte che c’era e non se l’era portato via un’ambulanza per i suoi tour ospedalieri.

Quanto ha sofferto Bruno Pesaola negli ultimi anni per una operazione a una gamba e poi per un nodulo maligno su una corda vocale. “E alora …”.

Se ne è andato una mattina di sole, il 29 maggio 2015, quando mancavano due mesi per festeggiare i 90 anni. E avevamo preparato tutto con Nando Pennino del “Sarago” e Juliano, Montefusco, Improta, Abbondanza, Canè che non ha mai finito di piangere da quella mattina di maggio al Fatebenefratelli, gli ultimi inutili tentativi di Gianni Barone e Mimmo Ronga. Almeno, aveva finito di soffrire. Rodiga, la vigorosa badante romena che l’aveva assistito come un fratello, ha pianto più di tutti.

Bruno era figlio di un calzolaio marchigiano che a Buenos Aires aveva sposato una donna galiziana. Subito dopo la guerra, era il 1947, arrivò in Italia. Scese dall’aereo a Ciampino vestito di lino bianco con un sombrero in testa, capelli nerissimi e carichi di brillantina, i baffetti da attore sudamercano. Arrivò da una lontananza di tanghi e di football e venne a rallegrare un mondo di furbi e di scettici.

Giocatore della Roma. Aveva detto a sua madre: due anni, faccio i soldi e torno per comprarti una casa. Ma, folgorato a Napoli, divenne napoletano e azzurro-napoletano.

Quando il Napoli giocava sulla collina vomerese passeggiavamo liberamente con gli azzurri tra via Scarlatti, il Bar Daniele e, al sabato sera delle partite in casa, eravamo all’Hotel Sant’Elmo.

Bruno arrivò a Napoli nell’estate del 1952 dopo un rapido viaggio di nozze con Ornella sulla costiera amalfitana. Appuntamento dei giocatori all’Hotel Parker’s. Un trio d’attacco eccezionale: Vitali, Jeppson, Pesaola. Il petisso comprò casa all’Arenella, ultimo piano panoramico, con i sei milioni di ingaggio versatigli dal Napoli. Aveva giocato nel Novara con Piola che aveva 40 anni.

Giocava ingoiando due pasticche di simpamina, il doping degli studenti alla vigilia degli esami, e fumava già come un mezzo turco, però aveva polmoni che erano mantici. Quando arrivò, aveva 27 anni. In maglia azzurra per 240 partite, le ultime nove giocate al San Paolo, servendo di barba, capelli e cross Jeppson, Amadei e Vinicio.

Allenatore del Napoli, quando arrivò Pesaola, era Eraldo Monzeglio, campione del mondo con la nazionale di Pozzo. Bell’uomo, ma severo. E timido. Abitava al Vomero vicino alla Funicolare centrale. Innamoratosi della velocista napoletana Marcella Jeandeau, che aveva partecipato alla Olimpiadi 1948 a Londra, le inviava fiori e cioccolatini. E non andò oltre.

Da allenatore, il petisso Pesaola gioì e pianse per il Napoli che salvò due volte dalla retrocessione coprendosi gli occhi per non vedere i quattro rigori calciati da Moreno Ferrario per la salvezza del 1983. Caro petisso, il cuore più buono e generoso che abbia mai conosciuto nel calcio. “E Pedernera, e Lustau, e Labruna, e Nestor Rossi. El River”. Erano i fuoriclasse del River Plate che aveva visto giocare. “E che ne sapete voi?”. Aveva giocato nelle giovanili del River con Alfredo Di Stefano. “E alora …”.

Ma perché questo amore per Napoli, gli chiedevo. “Perché a Napoli non ti senti mai solo. Napoli è stata amore a prima vista. E’ stata subito la mia città. Bella da riempire il cuore. Non mi sento più argentino, sono napoletano”.

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