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Marco Rossi: «Il gegenpressing ha cambiato il calcio, e anche la mia Ungheria»

Intervista col ct della Nazionale magiara: «Oggi si cerca di essere sempre più aggressivi in avanti, ci si orienta più sull’uomo che sullo spazio»

Marco Rossi: «Il gegenpressing ha cambiato il calcio, e anche la mia Ungheria»

Ha giocato a Pozzuoli e a Città del Messico, a Genova e a Francoforte. Ha girato anche da allenatore: Italia, Slovacchia e Ungheria, ottenendo grandi risultati ovunque. Marco Rossi ha dimostrato di essere un tecnico di spessore, preparato, moderno. Ma soprattutto vincente. Il suo ultimo traguardo è aver condotto la nazionale ungherese agli Europei del 2021. Al Napolista però ha spiegato che non c’è un cerchio da chiudere o un passo in avanti da compiere ancora: «Sa cosa vuol dire per uno che è cresciuto con i racconti della Squadra d’Oro, allenare questa nazionale?».

«Mio nonno adorava due squadre: il Grande Torino e l’Ungheria dei primi anni Cinquanta. Per me è come allenare l’Italia, credo di aver raggiunto il punto più alto sulla panchina ungherese, per ciò che rappresenta per me e il mio percorso umano. Non so se la mia carriera potrà migliorare ancora, sarà molto difficile se non impossibile. Un po’ come battere l’Inghilterra per andare ai Mondiali (ride, ndr).»

Non crede di poter arrivare al primo posto nel girone di qualificazione?
«Nei momenti di euforia, le persone tendono a evidenziare obiettivi poco realistici, molto difficilmente raggiungibili. Sappiamo di essere al 40° posto del ranking, l’Inghilterra è al 5°, la Polonia al 19°, l’Albania ci segue in graduatoria e ha giocatori interessanti, con un allenatore italiano di indubbie capacità come Reja. Poteva andare peggio, come poteva andare meglio: ogni partita andrà studiata. Qualche possibilità potremmo averla con la Polonia; con l’Inghilterra invece non direi. Le nostre chance sono ridotte al lumicino, ma cercheremo di fare di tutto per rendere loro la vita difficile.»

Che sensazioni le ha provocato riuscire a centrare gli Europei?
«Sono stati giorni incredibili. In sei giorni si è concretizzato qualcosa di insperato per tanti versi. Lo spareggio con l’Islanda poteva essere sfavorevole, abbiamo vinto meritatamente anche se nel recupero. E ora giocheremo anche nella Serie A della Nations League, insieme alle squadre migliori d’Europa. È stata un’emozione unica, che purtroppo ho vissuto sul divano di casa mia a Pozzuoli, perché avevo il coronavirus.»

Szoboszlai è il gioiello della sua nazionale. Se dovesse lasciare Salisburgo, dove lo vedrebbe bene?
«Per il suo percorso di crescita, il campionato italiano sarebbe l’opzione migliore perché lo aiuterebbe a migliorare in fase di non possesso dove ha ancora qualche lacuna. Passare dal calcio austriaco a quello tedesco, visto che si dice che il Lipsia sia la squadra favorita, non fa molta differenza da un punto di vista di principi di gioco, sono simili.»

In quale squadra potrebbe esprimersi al meglio?
«Si potrebbe adattare ovunque. A Salisburgo gioca esterno sinistro in un 4-4-2, quando secondo me è il classico numero 10, da poter schierare in un centrocampo a tre o dietro una punta. E tante squadre hanno questa figura: Napoli, Milan, Lazio, Juventus. Sarei stato contento se l’avesse preso il Napoli, così lo sarei andato a trovare spesso.»

Come sta cambiando il calcio?
«Si cerca di essere sempre più aggressivi in avanti, ci si orienta più sull’uomo che sullo spazio, si pressa più in alto. C’è sempre qualcuno che si difende basso, ma spesso quest’aspetto si collega alla qualità della squadra: accettare duelli a tutto campo significa giocare in spazi molto aperti e il rischio aumenta per le formazioni meno attrezzate.»

Anche lei ha modificato così l’Ungheria?
«Sì, pressiamo di più e gli avversari non si aspettavano qualcosa del genere, ci ha permesso di giocare buone partite. D’altronde, abbiamo assecondato le caratteristiche dei giocatori, che preferiscono correre in avanti più che all’indietro. Il passaggio ad un calcio più moderno è stato condiviso.»

Cosa ha originato questa svolta?
«Il gegenpressing tedesco. Una ri-aggressione immediata, in cui la squadra si sposta tutta in avanti ma mantenendo con chiarezza determinati riferimenti.»

Nota che le differenze tra i campionati si stiano assottigliando da questo punto di vista?
«Nelle grandi squadre è così, i principi su cui si lavora sono sostanzialmente gli stessi: il recupero veloce della palla, le distanze corte tra i reparti, il consolidamento del possesso. Essere attivi anche in difesa fa parte del calcio di oggi, aspettare lì dietro è un modo di pensare troppo passivo per i tempi attuali. Può cambiare il punto in cui si vuole attuare la pressione, la strategia è giusto che vari di partita in partita, in base alle proprie caratteristiche e quelle dell’avversario.»

Com’è allenare una nazionale nel 2020?
«È difficile, in un anno normale si giocano una decina di partite, ma ora abbiamo ancor meno tempo e bisogna prestare maggiore attenzione a non condizionare fisicamente i giocatori. Per cui si punta su quelli in forma, che vengono impiegati con continuità. Io poi cerco di lavorare molto sul piano psicologico anche quando non li ho a disposizione, tenendo vivi i contatti nel tempo.»

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