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Andai a trovare Maradona il giorno prima che lasciasse Napoli

Aveva la barba lunga, stava guardando un match di Tyson: «Il calcio mi ha dato tanto ma mi ha tolto moltissime cose». Poi vennero tanti compagni a salutarlo

Andai a trovare Maradona il giorno prima che lasciasse Napoli

L’ultimo giorno con Diego raccontata da Mimmo Carratelli
(una serie di testimonianze da parte dei giornalisti napoletani, raccolte da Salvatore Malfitano)

Maradona se ne andò da Napoli prima di sapere della squalifica. Era la vigilia di Pasqua e andai a trovarlo a casa. Mi aprì Marcos Franchi, il suo procuratore (aveva rotto con Coppola l’anno prima). Gianinna, due anni, nata il giorno in cui il Napoli vinse la Coppa Uefa, era già a dormire. Dalmita, quattro anni, nata il giorno del primo scudetto azzurro, era l’indiscussa regina della casa. C’erano venti bagagli pronti. La madre di Claudia, una signora minuta e paziente, con gli occhiali, chiudeva gli ultimi borsoni. Claudia, un po’ tesa, preparò il caffè.

Diego era in tuta e aveva la barba lunga. Stava guardando alla tv un vecchio match di Tyson. L’aveva visto combattere a Las Vegas e mi disse: “Ci andai con mio padre a vederlo, al mio vecchio piace la boxe. Ora che col calcio ho finito avrò molto tempo per mio padre. Troppo tempo è passato senza vederci. Il calcio mi ha dato tanto, ma mi ha tolto moltissime cose”.

Mi commosse il suo viso che si addolcì mentre parlava del padre. Un po’ imbarazzato, gli porsi un dolce pasquale napoletano, la pastiera, che avevo portato con me. “È per te, è molto dolce.” Arrivò Massimo Crippa. Si abbracciarono e Diego scoppiò a piangere. Poi vennero Careca, De Napoli, Ferrara, Alemao, Francini, Incocciati.

Lo chiamò da Vienna, dove giocava, suo fratello Hugo. Andò a rispondere al telefono. Fu una telefonata molto tenera e scoppiò a piangere. Tornò a sedersi sulla poltrona e Dalmita gli saltò sulle ginocchia.

“La vita non finisce qui” disse e citò un detto argentino: “Ogni giorno ne impariamo una nuova, ma si deve andare avanti. Io andrò avanti”. Aggiunse: “Uscirò dal tunnel. Si dice così? Lontano dal chiasso che si sta facendo qui, penserò molto, rifletterò, vicino a mio padre”. Bevemmo il caffè.

Parlò ancora. “Voglio un po’ di tranquillità, ma non scappo. Sono pronto a tornare quando i giudici italiani mi convocheranno. Porterò sempre Napoli nel cuore, soprattutto quelli che qui mi hanno voluto bene. E se oggi sono pochi, se anche si contassero sulle dita di una mano, questi pochi valgono tutte le folle che mi hanno applaudito quando giocavo”.

Ci congedammo. Amavo il ragazzo sincero e istintivo, generoso e leale che era venuto a Napoli, e ora amavo l’uomo in difficoltà, sotto il macigno del doping, succube della cocaina che gli stava già rovinando la vita. Vidi nei suoi occhi l’ombra di una sconfitta irrimediabile.

Il giorno dopo, domenica, partirono Claudia, sua mamma e le bambine. Lunedì, 1° aprile, Diego decise di andare. “Domani è il due di aprile, è il compleanno di Dalmita che è già in Argentina, voglio stare con lei”.

Andai a vederlo partire. C’era un gran folla di giornalisti e fotografi davanti all’abitazione di via Scipione Capece sulla collina di Posillipo. In casa, lui si fece la barba canticchiando un motivo argentino: “Pajarito, pajarito”. Un’aria triste di tango. Mangiò un piatto di pasta. Disse: “Io non voglio far finta di avere problemi. Nella vita c’è chi sa di avere problemi e vuole risolverli, ma c’è pure chi ha il problema e vuole continuare a vivere ignorandolo. Io non voglio più ignorare”.

Ebbe un pensiero per papà Chitoro. “Mio padre non deve soffrire. L’infarto gli è venuto anche per tutti questi miei problemi. Andrò a pescare con lui, come abbiamo fatto l’ultima volta. E parleremo, parleremo tanto. E mi allenerò ancora, soltanto davanti a lui”.

Andò al telefono e compose il numero di Villa Devoto a Buenos Aires. “Hola, madre, sto tornando. Dejame hablar con papo”. Ma papà Chitoro non andò al telefono, era troppo emozionato.

Era una dolcissima sera d’aprile, la Pasquetta del ‘91. Poco dopo le 22, Diego scese di casa. Indossava blue-jeans azzurri, una camicia gialla a pois di Versace, un giubbino di pelle nera, occhiali scuri. Si mise al volante della Bmw 850 scura, una delle sue tante macchine. Dentro c’era già Franchi. Il cancello si aprì e l’auto venne fuori lentamente. Poi, accelerò d’improvviso e si allontanò con una sgommata.

Andò veloce la Bmw scura sull’autostrada da Napoli a Roma. A Fiumicino, Fernando Signorini, l’amico vero, il più sincero, mise a punto tutte le pratiche per la partenza. L’aereo italiano per Buenos Aires, sigla AZ 576, partì all’01:05.

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