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Se giochi a specchio col Barcellona, perdi. È matematico

Loro hanno Messi e noi Insigne. Sétien ci ha lasciato il possesso palla, sapeva che così avrebbe subito meno pericoli. Siamo tornati al grazie lo stesso

Se giochi a specchio col Barcellona, perdi. È matematico

Passata la notte, resta quella sensazione di aver avuto l’occasione della vita e di non essertela nemmeno giocata. E non è una piacevole sensazione. Ed è stata una di quelle occasioni che chissà quando passerà più. Lo stesso Gattuso ha ammesso che contro questo Barcellona si poteva fare di più. Almeno osare, aggiungiamo noi. L’allenatore nel post-partita ha ovviamente anche difeso il proprio lavoro. Il rifugio nel possesso palla è ormai diventato un classico. Come l’avviso di garanzia a Citaristi (tesoriere della Dc) ai tempi di Tangentopoli: ne ricevette 74.

Restano due cose. Quel che abbiamo scritto a caldo: “fondamentalmente non c’è stata partita”; e una domanda: ma qual era il piano per vincerla? 

È vero, il Napoli ha avuto più possesso palla del Barcellona. Ma a che cosa è servito? Quante parate ricordiamo di Ter Stegen? Oseremmo dire nessuna. Il Napoli ha colpito due pali esterni: il primo, dopo 80 secondi, susseguente a rimpallo in area e poi con colpo di testa di Lozano (Ter Stegen, non si perché, non ha voluto sporcare i guanti, ha accompagnato la palla con lo sguardo).

Il Napoli ha avuto possesso palla perché il Barcellona ha pensato che in questo modo gli azzurri fossero meno pericolosi. La grande notizia della serata del Camp Nou è che Sétien ha in parte snaturato il proprio gioco. Ha privilegiato l’intelligenza all’ottusità calcistica. Anche lui è diventato eterodosso, lui che era stato ingaggiato per sostituire l’eretico Valverde.

È bastato porsi una domanda facile facile: il Napoli è più pericoloso con la palla tra i piedi i piedi o in ripartenza? O contropiede o transizione, ci siamo capiti. La risposta è elementare. E il Barcellona ha lasciato che il Napoli avanzasse liberamente fino alla tre quarti. Un po’ perché  il Barcellona non ha i mezzi per pressare alto: nel lungo elenco di qualità di Suarez, Messi e Griezmann, non rientra il pressing alto. Un po’ perché col pallone tra i piedi e la difesa schierata, il Napoli non segna praticamente mai.

Le due squadre si sono schierate a specchio. La partita è stata una fisarmonica. Quando il Napoli aveva palla, il Barcellona rinculava. E viceversa. E se giochi come il Barcellona contro il Barcellona, il tuo destino è segnato. È un po’ come l’uomo con la pistola contro l’uomo col fucile. Perché loro hanno Messi e noi abbiamo Insigne. Si sapeva in partenza.

Si può certamente recriminare per il primo gol preso: nel calcio di oggi, quella spinta è fallo. Nel calcio vero, no. Ma oggi il calcio vero non esiste più. A parte il primo gol, però, c’è la doppietta di Messi. Il primo gol è un’invenzione, la cosa più bella della partita. E il secondo – misteriosamente annullato – un ricamo finale al termine di un’azione umiliante per il Napoli. Ma ci sta. Infine, la dormita di Koulibaly nell’ormai famigerata costruzione da dietro. La partita è finita lì nonostante il fallo di Rakitic su Mertens e il conseguente rigore di Insigne l’abbiano teoricamente riparta.

E qui scatta un’altra domanda. Come potevamo pensare di far male al Barcellona con Callejon che da mesi è l’ombra del grandissimo calciatore che è stato, e con Insigne a mezzo servizio? La formazione è sembrata la decisione che di solito prendono le federazioni italiane alla vigilia delle Olimpiadi. Mentre gli americani fanno i trials e chi fa il tempo, va, in Italia c’è sempre l’ultima passerella che viene concessa al grande campione che fu. Capita anche nei Mondiali di calcio successivi a quelli vinti, sempre uno strazio: nel 1986 come nel 2010. Omaggi al passato.

Non è un caso che Piqué e Lenglet ieri sera abbiano fatto un figurone. Sono due difensori che vanno in difficoltà in spazi aperti, contro giocatori veloci come dimostrò il Napoli all’andata sia nell’azione del gol di Mertens sia sul gol fallito da Callejon. Quando il Barcellona gioca rintanato nella propria area contro un attacco che tra l’altro in area non ci sta, la coppia centrale del Barcellona giganteggia.

Perché l’attacco del Napoli, come ha ricordato ieri sera Fabio Capello a Sky Sport a Gattuso, in area non c’era. Al massimo il solo Mertens che infatti non a caso ha avuto una chance dopo 80 secondi – su rimpallo – e ha subito il rigore. Un attacco che, diciamolo, ha numeri molto precari. In campionato, Insigne ha segnato una rete ogni 352 minuti. Senza rigori, il dato quasi raddoppia. Lozano ogni 254 minuti. Mertens ogni 187 (ma ha segnato gol importanti e decisivi in Champions), Milik ogni 180 minuti e Callejon ogni 544 minuti. (Tematica che approfondiremo a parte).

Non è un caso che il Napoli si sia reso più pericoloso nel secondo tempo, quando sono entrati Milik e Lozano. Guarda caso la coppia d’attacco che Ancelotti aveva in mente dopo aver compreso – a Liverpool 2018 – che un ciclo si era chiuso. Milik ha segnato il gol di testa in fuorigioco. Lozano ha sprecato un bel cross di Insigne. E lo stesso messicano ha colpito la base del palo, ancora di testa. Nulla di trascendentale. Del resto i due sono entrati troppo tardi per sovvertire il piano della partita.

Il Napoli ha finito col giocare proprio come avrebbe desiderato il Barcellona. Senza strappi, senza accelerazioni, tenendo palla, scimmiottando i catalani. Ma senza avere Messi Suarez e Griezmann. È un po’ come volersela giocare da fondo campo con Nadal: si va incontro a morte certa. Con tutti gli alibi del caso: hai perso contro Nadal e nessuno ti garantisce che sarebbe andata diversamente giocando non da fondo campo. Ma il Napoli resta pur sempre una squadra che in Europa negli ultimi due anni ha battuto due volte il Liverpool, ha quasi vinto a Parigi col Psg e ha messo timore al Barcellona al San Paolo.

Dire che è stato un brusco ritorno al passato, non è reato. Siamo tornati al grazie lo stesso. Alla bella morte. A testa alta. All’eterna riedizione della frase con cui il povero Mondonico ci accompagnò in Serie B: “Non è contro (nome squadra a caso: Fiorentina, Inter, Juventus) che dobbiamo fare i nostri punti”. E finì che quei punti non li facemmo mai.

Va da sé che chi scrive non avrebbe mai esonerato Ancelotti. Per un semplice motivo. È stato l’unico a comprendere che un ciclo era finito e che andava imboccata una strada nuova. Che ovviamente avrebbe potuto incontrare difficoltà e resistenze, com’è avvenuto. Ma quell’esperienza – il sarrismo calcistico per intenderci – era esaurita. De Laurentiis non lo ha seguito e amen. Ha imboccato la strada della restaurazione ed evitiamo di dilungarci sulla prospettiva che si staglia all’orizzonte.

I nodi che però Ancelotti aveva individuato, restano tutti. A cominciare dall’attacco. Nel calcio bisogna segnare. Bisogna trovare il modo per buttare la palla nella porta avversaria. E il Napoli con questo gioco fa maledettamente fatica. Per ora, la soluzione si chiama Osimhen.

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