Quanta nostalgia per il dibattito in Francia. Da noi o litigano i presidenti o c’è il silenzio quasi assoluto. Oppure parla Mancini che prova a fare il lobbista con argomentazioni debolucce
Ieri l’Equipe ha dedicato quattro pagine al dibattito sulla ripresa. Due dedicate ai calciatori e agli allenatori. Una ai medici sportivi e una ai presidenti. Il quotidiano sportivo non assume una posizione, dà voce al dibattito, alle varie voci. In poche parole: informa. Ci fa sapere che l’associazione calciatori ha sentito i suoi tesserati e tre su quattro sono preoccupati per le condizioni sanitarie quando eventualmente si riprenderà. Scettici sul ritorno in campo anche i medici, alcuni allenatori e persino qualche presidente. Oggi il quotidiano intervista il tecnico del Lione Rudi Garcia e informa i lettori di una chat di Whatsapp che proprio l’ex Roma ha aperto per creare un luogo di discussione con i suoi colleghi di Ligue1 e Ligue2, chat cui si è aggiunto il presidente dell’associazione allenatori Raymond Domenech.
Nell’intervista, Garcia si dichiara favorevole alla ripresa ma a due condizioni: che non si giochi ogni tre giorni e che ci siano almeno due settimane di ferie tra la fine di questa stagione e l’inizio della successiva.
In Francia c’è un dibattuto che non prescinde dalle condizioni sanitarie. Non si esaurisce nelle beghe tra presidenti: chi vuole ripartire a tutti i costi e chi no. Cairo e Cellino da un lato e Lotito dall’altro, per capirci. Posizioni quasi sempre – per non dire sempre – dettate esclusivamente da interessi personali. Accade anche in Francia, certo. Proprio il presidente del Lione Aulas, un mesetto fa, lanciò la provocatoria proposta della cosiddetta stagione bianca, ossia annullare tutto e quindi il Lione – oggi settimo – parteciperebbe alla prossima Champions. Ci fu una sollevazione “popolare”. Ma, per il resto, il dibattito è serio, adulto, consapevole. Lo abbiamo riportato ieri.
Da noi, invece, raramente gli allenatori si sono esposti sul tema “ripresa”. Frasi di rito. Sono pochissimi i tecnici che si sono esposti. Ci viene in mente Claudio Ranieri che naturalmente ha rilasciato dichiarazioni in linea con la posizione del proprio presidente – favorevole allo stop – ma comunque ha argomentato. Ci vengono in mente due allenatori che hanno fatto la storia del calcio italiano – Giovanni Trapattoni e Carlo Ancelotti – ma non lavorano in Serie A. Hanno espresso pensieri che vanno oltre il terreno di gioco. Hanno parlato di ambiente, del calcio, insomma persone consapevoli che la pandemia è un evento che sta rivoluzionando le nostre vite e condizionerà fortemente il futuro. Che non tutto può esaurirsi nell’incassare i diritti tv.
Però un allenatore che ha parlato, c’è. È Roberto Mancini oggi intervistato dal Corriere dello Sport. Posizione netta. Mancini vuole tornare a giocare. In perfetto allineamento col presidente della Federazione Gravina. Prova a fare il lobbista, non c’è nulla di male, difende gli interessi di una parte. Posizione rispettabile, però invero poco convincente. Alcune argomentazioni del ct ci hanno lasciati attoniti. Dice di non voler polemizzare col governo ma ricorda che «la gente è stanca», che «oltre alla chiusura di tutte le attività, dei fallimenti delle aziende, dovremo confrontarci con la depressione». A Mancini
«risulta che il mondo dello sport non sia stato colpito dal coronavirus. I casi li contiamo facilmente, soprattutto ad alto livello: venti giocatori in serie A? Non ci arrivo, se escludiamo medici, accompagnatori e staff. … Secondo me lo sport di contatto non è pericoloso, almeno osservando i numeri. … Penso che l’attività possa riprendere: i campi di calcio sono lunghi cento metri, ci sono gli spazi giusti, molti club hanno anche molteplici terreni e spogliatoi diversificati. Riprendiamo a giocare a calcio e vedrete che il calcio aiuterà il Paese».
Allora il ciclismo può riprendere tranquillamente visto che le corse sono di 250 chilometri. Per non parlare della Formula Uno. Non ce ne voglia il ct, ma viene da dire: che ragionamento è? Quindi lo sci, dove si parte uno alla volta, avrebbe serenamente potuto proseguire la stagione. E potremmo proseguire a lungo.
Non c’è giorno in cui i medici sportivi non lancino l’allarme sulla ripresa. Oggi lo ha fatto il presidente dei medici sportivi Casasco.
Capiamo la posizione del calcio, che è la posizione efficacemente riassunta dal presidente della Federcalcio Gravina: «Se il calcio non riprende, muore». Ma non accettiamo un’altra sua affermazione: «chi invoca l’annullamento, non vuole il bene degli italiani». Il bene degli italiani è la propria salute. Ci sono diversi punti di vista sulla tutela della salute. Certo. Non tutti i Paesi si sono comportati allo stesso modo. Anche se – ricordiamo – la ministra degli Esteri (giusto per fare un esempio) ha spiegato a La Stampa che non è affatto vero che lì la vita scorra come se nulla fosse.
Crediamo che non siano così tanti gli italiani pronti a barattare la propria sicurezza per una partita di calcio. Il calcio italiano si è gestito in modo dissennato. Se n’è fregato delle elementari regole di bilancio. Ha voluto vivere ben al di sopra delle proprie possibilità. E adesso non sa che pesci prendere. La domanda è: perché sono gli italiani e dover addossarsi la responsabilità della pessima gestione economia dei club?
Il calcio è un’industria e siamo d’accordo. Va sostenuta, come i tanti altri settori messi in ginocchio da questa situazione. Ma un’industria deve anche darsi e saper rispettare delle regole. Oggi sbatte i piedi perché vuole essere a tutti i costi risarcito. Senza aprire alcun fronte autocritico. È vero che gli italiani sono grandi appassionati di calcio ma questa pandemia ha smentito la vecchia massima di Churchill: «Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio».
Il calcio, invece di piagnucolare, ne approfitti per aprire un serio e costruttivo confronto al proprio interno. Scrive Sconcerti che sta cercando di far valere il peso del proprio lusso. Malagò porta l’esempio del Modena volley che ha deciso di rinunciare a Zaytsev perché non può permetterselo e perché sta cercando di programmare e salvaguardare il proprio futuro.
Il calcio continua a piacerci. Ma non è colpa nostra se questa pandemia ne ha evidenziato le storture e le debolezze. E non sarà la spiegazione sulla lunghezza del campo a farci cambiare idea. E non dimentichiamo che c’è anche il calcio tra le possibili cause delle diffusione indiscriminata del virus nel Bergamasco. Il calcio, in condizioni di emergenza, non può essere una priorità. Se ne faccia una ragione.