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Burgio: «In Italia non abbiamo esperti di virus. Solo il Cotugno ha protezioni adeguate per i medici»

Interessante intervista di Business Insider al pediatra e biologo molecolare: «L’unico esperto è Crisanti e infatti il Veneto ha arginato l’epidemia. Avevamo un mese di tempo per prepararci»

Burgio: «In Italia non abbiamo esperti di virus. Solo il Cotugno ha protezioni adeguate per i medici»

Su Business Insider una lunga e interessante intervista ad Ernesto Burgio. Pediatra, esperto di epigenetica e biologia molecolare, è presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale. La riproponiamo quasi integralmente perché è un’intervista molto interessante, ciascuna parola è pesata.

La pandemia era ampiamente prevedibile, spiega. Da almeno 23 anni. Da quando, cioè, nel 1997 comparve l’H5N1, un nuovo virus influenzale, tra i più letali della storia. C’erano tutti gli allarmi lanciati da scienziati e ricercatori e lavori di ricerca. E la Sars del 2002 non ha fatto che accentuare l’allerta.

Non a caso, i Paesi Paesi asiatici come Cina, Giappone, Hong Kong, Taiwan e Corea hanno saputo rispondere al virus.

“In tutto l’Occidente, invece, non solo non c’erano veri piani per affrontare un’emergenza pandemica ma si è enormemente sottovalutato quello che stava succedendo in Oriente”.

Il 31 gennaio, in Italia, è stato dichiarato lo stato di allarme pre-pandemico, ma non è stato fatto nulla per prepararsi. Un po’ perché finché una cosa non arriva non ci si trova mai pronti, ma anche perché “in Italia grandi esperti di virus pandemici non ce ne sono”. Tranne Crisanti, aggiunge, consigliere di Zaia, che non a caso, in Veneto, è riuscito ad arginare il dilagare dell’epidemia.

Quanto alla contagiosità del virus, spiega che è molto alta, ma che si sarebbe potuto porre un argine.

“Se ci fosse stato un piano, se a gennaio, quando il contagio già dilagava in Cina, avessimo cercato attivamente le polmoniti che alcuni già segnalavano, avremmo potuto evitare il lockdown perché avremmo avuto il tempo di fare quello che è stato fatto in Veneto”.

Invece si è perso un mese e si è poi dovuto bloccare il Paese e ridurre drasticamente qualsiasi contatto fisico.

“Credo che il governo, a quel punto, abbia fatto la scelta giusta”.

Non ci si infetta per strada, ma negli ambienti chiusi, tra persone che hanno un’esposizione ravvicinata.

“Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali. È molto difficile che ci si contagi per strada”.

Se bastasse respirare per rimanere contagiati “saremmo tutti morti”.

Capitolo mascherine. Per gli operatori sanitari non bastano certo quelle chirurgiche.

“Gli operatori sanitari andavano formati, sia quelli del territorio sia quelli dei reparti, e d’altronde non basta una mascherina chirurgica a proteggerli. Ci voleva un equipaggiamento simile a quello visto in Cina e che oggi ha adottato molto bene soltanto l’ospedale Cotugno di Napoli”.

Per la gente comune, invece, il discorso è diverso.

“Prima di essere un obbligo avrebbe dovuto essere qualcosa da indossare spontaneamente per tutelare gli altri. Infatti, se siamo esposti a una persona che tossisce, la mascherina è insufficiente; ma se siamo esposti a un asintomatico che neanche sa di avere il virus, la mascherina blocca la gran parte delle goccioline, il veicolo principale di contagio. Tuttavia, ci sono giornali che titolano: “L’aria pullula di virus, mettete la mascherina”. Non solo è eccessivo, ma se anche il virus può essere nell’aria lo è in quantità minima, per cui è quasi meglio incontrarlo: non possiamo farne a meno, se vogliamo prima o poi immunizzarci. Importante è non incontrarlo in quantità pericolosa”.

Burgio parla anche degli asintomatici. Nello studio fatto dalla Cina non se ne parlava per nulla, invece rappresentano il 50-60% delle persone che vengono a contatto con il virus.

“Se uno ha un po’ di mal di testa, un po’ di mal di gola o magari un po’ di congiuntivite per qualche giorno significa che probabilmente ha incontrato il virus, non ha sviluppato una forma di malattia significativa, ma il virus prolifera nella sua gola: questo significa essere portatore asintomatico. Chi lo è non ha minimamente idea di essere contagioso: ecco perché le mascherine sono importanti. Nessuno pensa che un banale mal di gola sia pericoloso, ma nel parlare con un altro, non solo per pochi secondi ma magari qualche minuto a distanza ravvicinata, a ogni respiro si emette una zaffata di virus“.

Un asintomatico è contagioso per 10-15 giorni.

“Ed è più grave nei primi 3 o 4, ma il virus resiste comunque in gola circa una settimana. Nelle persone che si ammalano la contagiosità varia da 20 a 40 giorni, a seconda della gravità del quadro: in quelli gravi rimane significativa anche durante la convalescenza, ma è chiaro che la contagiosità massima è nel periodo iniziale”.

Sulla tanto discussa immunità Burgio non è esattamente ottimista. Si può parlare di anticorpi quando un virus è stabile. Non in questo caso.

“Ci troviamo di fronte a un virus che probabilmente – stando a quello che per ora sappiamo – viene da un pipistrello, ha fatto il salto di specie pochi mesi fa ed è molto instabile, quindi continua a mutare”.

Le persone che vengono a contatto con esso formano sì degli anticorpi ma che non durano troppo tempo.

Le persone che incontrano il virus in questo periodo si fanno degli anticorpi, ma se il virus dovesse tornare fra quattro mesi con le proteine di superficie cambiate non siamo sicuri che l’immunizzazione sarebbe stabile. A maggior ragione perché in una popolazione sottoposta a un lungo lockdown il contatto col virus è molto basso. Si evitano così tragedie enormi – l’idea iniziale da parte degli anglosassoni e degli americani dell’immunità di gregge avrebbe significato milioni di morti – ma il rischio è che serva molto più tempo per avere immunità”.

In Italia sono arrivate informazioni contrastanti da governo, scienziati, regioni. E’ mancata la chiarezza nell’informazione ai cittadini, anche sui tamponi.

“Non c’è stata chiarezza delle informazioni perché le informazioni chiare le poteva dare solo un esperto, e siamo in un Paese in cui grandi esperti su questo tipo di problemi non ci sono”.

Un problema che non è solo italiano, spiega.

“Entriamo nei dettagli, a partire dai tamponi. Il fatto è semplice: noi non ne avevamo e tuttora non ne abbiamo a sufficienza. All’inizio di gennaio qualcuno di noi ha chiesto di prepararsi, di accumulare tamponi perché ci avrebbe consentito di fare come hanno fatto i cinesi o la Corea, che fa in media 20/30 mila tamponi al giorno. Li fanno a chi ha sintomi e ai loro contatti, così quarantenano in maniera rigida e bloccano l’epidemia. Questa si chiama sorveglianza attiva. Il primo golden standard è che l’epidemia si ferma sul territorio, non negli ospedali. E noi questo non l’abbiamo fatto”.

I cittadini sono stati informati su quali precauzioni prendere, ma ogni regione ha agito in modo diverso, anche in virtù delle diverse esperienze con il virus. La Lombardia ha commesso molte leggerezze.

In Lombardia sono state fatte una serie di leggerezze, anche se il termine è troppo poco rispetto ai fatti: c’era l’allarme, c’erano i filmati in arrivo dalla Cina e molti di noi continuavano ad allertare, ma sono state consentite le partite di calcio, i raduni di 20 mila tifosi per festeggiare, si sono fatte le fiere. È chiaro dunque che in queste zone il virus è dilagato. La Lombardia ha uno dei sistemi sanitari tra i migliori d’Italia ed è stata invece quella che ha avuto il tracollo peggiore, proprio perché c’è stato un ritardo gravissimo di 10-15 giorni. Le responsabilità per questo disastro insomma ci sono, ma non sono solo dell’ISS: sono un po’ di tutti”.

In che fase siamo adesso?

Penso che non sia detto che siamo già arrivati al plateau. Per deciderlo bisogna valutare i tassi di mortalità che sono quelli più stabili, perché  tutti gli altri calcoli, per esempio i casi accertati, dipendono da quanti tamponi vengono fatti. L’unico dato su cui possiamo basarci sono i decessi, e se già da un pezzo siamo sui 600-700 morti al giorno non si può dire che sta rallentando solo perché abbiamo meno casi accertati e quindi meno ricoveri. Ho l’impressione che molti non vadano in ospedale perché hanno capito che è pericoloso. Se va bene, siamo arrivati vicino al plateau ma non ancora a un calo. E’ inutile rassicurare, perché la gente poi non si fida più“.

Bisogna insomma continuare a mantenere con rigore le misure di contenimento

“fino a quando siamo sicuri che ci sono buone possibilità di avere rallentato la corsa del virus e soprattutto di avere veramente isolato gli ultimi focolai residui di questo disastro”.

Fuorviante anche conteggiare ogni giorno i guariti.

“Chi sono i guariti? Sono quelli che non sono più contagiosi. Ma quanti sono quelli che avendo avuti pochi sintomi sono contagiosi per altri 30, 40 giorni? L’idea che debba ripartire l’economia è importantissima, ma non rischiando di avere un crollo dopo 20 giorni: sarebbe ancora peggio, lo capisce anche un bambino. Ora è finita la crescita esponenziale, speriamo che veramente non si sviluppi al Sud una situazione di crisi: c’è da stare tutti molto attenti e tenere tutto fermo per un altro mese”.

La speranza è di poter riaprire parzialmente a metà maggio.

“Sempre che si confermi la quasi-scomparsa dei casi. A quel punto bisognerà far capire a chi di dovere, e cioè essenzialmente da un lato a chi governa e dall’altro a chi regge le sorti economiche del Paese, che c’è una cosa fondamentale da fare”.

E spiega quale. Troppo alto il numero di contagiati e morti tra medici, infermieri e altri operatori sanitari. E’ inaccettabile.

“Fin dall’inizio noi chiediamo – e, mi creda, ne abbiamo la documentazione, almeno dai primi di febbraio – di organizzare corridoi alternativi, perché il virus non doveva entrare negli ospedali. Se riusciremo ad avere un rallentamento e poi una diminuzione dei casi che consenta un ritorno a una certa normalità a metà maggio, la riflessione e gli investimenti dovranno essere indirizzati a ristrutturare quel sistema sanitario nazionale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 15-20 anni di politiche liberiste e di privatizzazioni”.

Non solo. Bisognerà provvedersi di dispositivi di protezione.

“Dovremo inoltre, e non è una cosa secondaria, avere in dotazione tutto quel materiale di protezione che oggi soltanto l’ospedale Cotugno ha dato al proprio personale. Se non riusciremo a farlo rapidamente è evidente che una possibile/probabile seconda fase sia peggio della prima. Quindi sì alla ripresa dell’economia, ma rafforzando il sistema sanitario, e aiutando i cittadini ad avere una diversa consapevolezza: a essere informati, formati e protetti”.

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