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«Noi dottoresse Covid-19, che abbiamo paura di portare il nemico a casa, in famiglia»

Sul Corriere Milano le parole di due pneumologhe lombarde, divise tra l’orrore vissuto in corsia e il ritorno dai figli, ogni sera. Costrette a baciarli furtivamente di notte, sui capelli, per paura di contagiarli 

«Noi dottoresse Covid-19, che abbiamo paura di portare il nemico a casa, in famiglia»

Sul Corriere Milano le voci di due pneumologhe lombarde, Francesca Luisi, di Rho e Dania Mazzola, di Varese. La prima ha 39 anni e una figlia di 7, la seconda 43 anni e un figlio di 9. Lavorano all’ospedale San Giuseppe di Milano, in pieno fronte pandemia. Raccontano la complessità della vita di due donne, mamme, in trincea. Costrette a fare i conti con il dolore quotidiano vissuto in ospedale ma anche con gli affetti, la famiglia.

Dania racconta che molti dei suoi colleghi hanno fittato degli appartamenti per isolarsi, e non tornare in famiglia dopo il lavoro. Lei, invece, nonostante faccia 120 km al giorno da casa al lavoro, tra andata e ritorno, ha scelto di tornare dal figlio ogni giorno.

«Mio figlio mi aspetta. Anche se vivo la situazione con giustificata paura. La paura di portare a domicilio il nemico. In ospedale abbiamo raggiunto grandi livelli si sicurezza. Dopodiché, superata la porta della mia abitazione, che per fortuna è abbastanza grande, corro filata in bagno, getto i vestiti in un sacchetto che finirà immediatamente in lavatrice, mi lavo e rilavo, lavo e rilavo, lavo e rilavo. Mi sono sistemata nella stanza degli ospiti, per dormire. In cucina c’è un bicchiere da cui devo bere soltanto io, in bagno ho messo asciugamani dedicati a me. Piccole cose fondamentali. Insomma, cerco di alzare il numero maggiore di protezioni e in verità può immaginare con quanta sofferenza, specie dopo il dolore in ospedale. Il dolore di figli che non riescono a salutare per l’ultima volta i loro genitori. Ecco, in verità ho ridotto drasticamente i momenti di fisicità col mio bambino. Niente abbracci, niente di niente, anche se, detto tra noi, qualche bacio furtivo, rapidissimo, magari di notte quando dorme, me lo concedo, sui capelli».

Francesca racconta  che appena rientra a casa deve tenere lontana la figlia, che vorrebbe gettarle le braccia al collo. Ma lei deve prima fare la doccia, per decontaminarsi. E’ straziante, dice.

«Qualcuno obietterà che c’è di peggio. Noi per prime lo sappiamo, ci viviamo dentro, nel peggio, stiamo facendo una fase lunga di piena emergenza, andiamo avanti giorno per giorno ma sarebbe un errore concedersi facili illusioni, mettersi in testa una data a breve, contare il tempo che manca. Parliamoci chiaro, è dura, è ostica e soprattutto il periodo sarò lungo».

Dania si sente a rischio per l’età.

«Sì, certo ho 43 anni. Dobbiamo smetterla di pensare che il virus colpisca unicamente le persone anziane. Nessuno è immune, prima ne prendiamo coscienza e meglio è».

Francesca ha imparato a rivalutare la normalità:

«Lasci perdere me che sono dottoressa nel reparti Covid-19. Ci siamo tutti dentro. È una malattia ma ancor prima un’infinita sequenza di tragedie familiari, che ci possono insegnare, qualora ce ne fossimo dimenticati, perché sbadati, distratti, strafottenti, lo straordinario valore e il privilegio della normalità della vita. Quando sto con mia figlia, e davvero sono momenti brevi, ci rimane male se mi arriva un messaggio dal cellulare e io mi alzo, lo prendo e leggo l’sms. So che dovrei silenziarlo, il telefonino, ma non posso, sono notizie che arrivano dall’ospedale e spesso sono brutte notizie»

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