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Serena Williams la superba, non vuole scendere a patti con le sue paure

È la quarta finale consecutiva dello Slam che getta via così, quasi senza giocare (senza togliere alla fortissima Andreescu). Come se non accettasse di poter avere il braccino. O si vince come dico io, o non si vince

Serena Williams la superba, non vuole scendere a patti con le sue paure

Lo sguardo di John McEnroe

C’è stato un momento, durante la finale femminile degli Us Open, in cui il regista ha indugiato su John McEnroe con lo sguardo ovviamente tra il corrucciato e il perplesso, apparentemente perso nel vuoto. Lì, in mezzo al campo, stava avvenendo qualcosa a lui familiare. Qualcuno, per dirla alla Lucio Dalla, stava facendo a pezzi una finale di uno Slam. L’ennesima. Serena Williams non stava soltanto soccombendo alla 19enne canadese Andreescu. Serena Williams si stava ribellando – in maniera autolesionistica – alle proprie paure. Serena non stava accettando che potesse giocare così male. E mentre qualsiasi altro si sarebbe calato nella situazione, e avrebbe provato a portare a casa la partita (e tutto quel che ne sarebbe conseguito) nonostante tutto; lei no. Non lo ha fatto nemmeno quando era evidente che i nervi d’acciaio della teenager avevano mollato. E che si era entrati in un’altra dimensione. E nel tennis quando la partita cambia, il passato non ha più senso.

Una differenza – macroscopica – c’è. John McEnroe avrebbe provato comunque a portare a casa quella partita. Lo ricordiamo distrutto, con le mani in testa, al termine di quel tomo di psicoterapia che fu la finale del Roland Garros 1984. Che determinò l’uscita di Ivan Lendl – oggi gigantesco nelle fattezze – dal tunnel dello sconfittismo.

Quel sorriso a fine match

Serena, ieri sera, dopo l’ultimo punto, è apparsa finalmente distesa. Da subito. A rete ha accolto la rivale con uno dei suoi sorrisi disarmanti. Che disvelano una bellezza e ci illudono su una profondità d’animo che non sappiamo se esista o meno; quel che sappiamo, però, è che scommetteremmo tutto sul sì.

Il post-partita è stato il segmento più sorprendente della serata. Serena era, appunto, serena. Il regista non è mai riuscito a cogliere una smorfia, un’espressione che rivelasse il pensiero di tutti: non riuscirà mai ad abbattere la maledizione di Margaret Court (quella omofoba di Margaret Court, per dirla con Billie Jean King); non vincerà mai lo Slam numero 24. Serena sembrava sollevata. Come se fosse la gemella della tennista che fino a un attimo prima si era incaponita a buttare in rete o fuori dal campo tutto o quasi le capitasse sulla racchetta. Alla fine del match gli errori gratuiti saranno 33: il doppio dell’avversaria.

Inexcusable

«La mia è stata una prestazione “inexcusable”», ha detto. È questa la parola chiave. Non ho scusanti per come ho giocato. È l’aspetto che ha sottolineato con insistenza. Serena non voleva vincere. Voleva vincere come diceva lei. Non può accettare che a ogni finale dello Slam le venga il braccino. E che (non) giochi sempre allo stesso modo. Che l’avversaria si chiami Kebler. Che si chiami Osaka. Che si chiami Halep. Che si chiami Andreescu. È sempre lei a perdere, non le altre a vincere. È lei a fare a pezzi le finali. È lei a consegnarsi. Come se davanti avesse uno specchio e lei venisse una insopprimibile voglia di farlo a pezzi. Perché quell’immagine riflessa non le piace, non vuole vederla. Le sue recenti finali degli Slam sono partite che sin dal primo punto si capisce come andranno a finire. Non a caso le ha perse tutte in due set, dopo aver dominato i tornei. Che non sono proprio tornei qualunque: Australian Open, Wimbledon, Us Open.

È come se Serena non sopportasse l’altro da sé. Non volesse venirci a patti. È come se Serena non volesse sporcare il record. Lo si stabilisce solo se gioca come dice lei. Qualcuno la chiamerebbe superbia.

Serena non ha perso perché perché ha quasi vent’anni in più dell’avversaria. Non perché fosse stanca. Dopo la stretta di mano, avrebbe potuto disputare una gara di triathlon. Ha perso perché non ha voluto accettare la Serena impaurita, terrorizzata, debole, fragile. Nemmeno sul 5-5 ha cambiato schema. Le sarebbe – quasi – bastato tirare la palla dall’altra parte. Andreescu (giocatrice intelligente, oltre che fortissima) non era più la macchina infernale del primo set. Un primo set che ha rasentato la perfezione.

In quello sguardo, apparentemente senza espressione, di John McEnroe c’è gran parte della finale femminile dello Us Open 2019. Eppure nemmeno lui sarebbe arrivato a tanto. Lui, che nel quinto set di quel trattato di psicopatologia, preferì giocare le due palle break rimanendo a fondo campo. Chissà, forse qualcuno lo ha raccontato a Serena. Che preferisce perdere a modo suo.

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