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La forza di Mertens è il suo essere fiammingo. Non si è mai arreso, ha sempre creduto nel lavoro

Da sette anni è spesso il mister Wolf del Napoli. Ma ogni volta deve ricominciare se non da zero, da tre. E lui lo ha sempre fatto. Ha stupito tutti, e ora è a due gol da Maradona

La forza di Mertens è il suo essere fiammingo. Non si è mai arreso, ha sempre creduto nel lavoro
Hermann / KontroLab

Nel primo gol c’è già tutto quel che avremmo visto tre anni dopo. C’erano le stimmate del centravanti. Centravanti forse atipico. Ma vero, altro che falso. Anno I in Serie A. Benitez in panchina. È il 30 ottobre 2013, il compleanno di Maradona. Mertens gioca titolare a Firenze. Sull’1-1, prende palla sulla tre quarti, in posizione centrale, chiede e ottiene triangolo da Higuain, entra in area e segna. Gol da puntero, non da ala o esterno come si dice oggi. È il primo di Dries Mertens in Serie A, il primo con la maglia del Napoli. Il primo dei 113 che segnerà in sette stagioni in maglia azzurra. È a due reti da Diego Armando Maradona. A otto da Marek Hamsik. È nella storia del Calcio Napoli.

Era appena arrivato dal Psv. Giocava all’ala.

Anche la seconda rete è da centravanti. Si gioca contro l’Inter di Mazzarri. Arriva come una furia su una palla al limite dell’area e la scaraventa in rete di destro. Da posizione centrale. Quell’anno, finisce il campionato con 11 gol. Non male per uno che non è nell’undici titolare, nonostante il ricorso scientifico al turn over da parte di Benitez. Segna anche il 2-0 alla Juventus. Inutile dirlo, anche quello da nove vero. Controlla una palla non facile, di petto, al volo, la difende, entra in area a batte di destro Buffon. Era entrato da poco. Il gol più bello, con Firenze, è forse quello segnato alla Roma in semifinale di Coppa Italia. All’Olimpico. Una percussione centrale da football americano e destro violentissimo appena dentro l’area. È un gol che pesa. Come pesa quello con cui chiude la finale – sempre all’Olimpico – contro la Fiorentina.

Dries ha sempre segnato. Anche nelle stagioni meno luminose, come la seconda di Benitez e la prima di Sarri. Ha resistito quando ormai sembrava che il suo ruolo fosse di comprimario. Secondo di tutti. Secondo di Insigne e poi secondo anche di Gabbiadini. La vita, si sa, è imprevedibile. Ti regala un’occasione quando meno te l’aspetti. Però bisogna farsi trovare pronti. Come Mertens appunto.

Fallita l’operazione Gabbiadini, Sarri affidò a Dries le chiavi dell’attacco. E probabilmente fu quello il più bel Napoli del triennio sarrita. 34 gol finali, 28 in Serie A. Sfiorò il titolo di capocannoniere. In tre stagioni, il belga ha segnato 75 gol.

Difficile trovare il più bello. Forse quello a Roma contro la Lazio. O il pallonetto contro il Torino. Ce ne sono tantissimi. C’è solo l’imbarazzo della scelta.

Quel che colpisce di Mertens, è il suo non arrendersi. Mai. Non si arrese con Benitez, non lo fece con Sarri. Non lo ha fatto con Ancelotti. Anche con lui, come sempre all’inizio di una nuova avventura, Dries è partito se non dalla panchina – termine ormai obsoleto – comunque dalla seconda fila. E a fine anno le reti sono state 19. Ha segnato il 3-2 della rimonta al Milan, la rete del momentaneo 1-2 a Parigi contro il Psg. E nelle ultime undici giornate di campionato, ha realizzato otto gol. Una, contro la Spal, nemmeno la giocò. Quest’anno è a quota dopo tre partite giocate. Con Ancelotti, nelle ultime tredici partite giocate ha segnato undici gol. Non male.

Eppure ha sofferto. Ha sofferto la partenza di Sarri, e non lo ha mai negato. Ha sofferto di dover tornare nuovamente in discussione dopo due stagioni da favola.

La grande forza di Mertens è stata ed è quella di essere una grande professionista. Serio. Che ha sempre mostrato grande determinazione. È sempre stato considerato una riserva, anche quando sul campo dimostrava il contrario. È stato ed è spesso il mister Wolf del Napoli, con una differenza: “risolveva problemi, ma poi veniva quasi messo da parte”. Doveva sempre ricominciare se non da zero, almeno da tre. Sorrideva di un sorriso amaro quando gli dicevano che andava in panchina perché così il suo ingresso in campo avrebbe fatto la differenza. È sempre stato intelligente, è sempre tornato sui suoi passi. Si è sempre rimesso in discussione. Ha sempre lavorato, convinto che il lavoro alla fine pagasse sempre. E così è stato. Sia pure con un carattere giocoso, stracciando un altro luogo comune, ha fatto ricorso all’essere fiammingo di Lovanio. Cittadina tristemente cara a chi ha amato Gilles Villeneuve.

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