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Posta Napolista – Il racconto del giorno in cui il Napoli ha fatto la storia

Riceviamo e pubblichiamo le parole di una giovane tifosa napoletana in tribuna allo Juventus Stadium: «Il gol, le lacrime poi tre minuti interminabili e l’urlo liberatorio».

Posta Napolista – Il racconto del giorno in cui il Napoli ha fatto la storia

Grazie a due amici di papà, Laura e Michele, posso dire io c’ero!  Partire da un sogno… fino ad arrivare alla realtà, all’obiettivo. Cosí è iniziata la giornata del 22 aprile 2018. Un susseguirsi di emozioni, urli, canti, pianti, sorrisi.

Uno stadio in cui mai pensavo di mettere piede, è diventato lo stadio della storia. Perché si, anche se non abbiamo vinto nessun titolo, nessun trofeo, abbiamo fatto la storia. La storia di una città che non si è mai arresa davanti a niente, che ha sempre lottato per ciò in cui credeva, che è andata contro tutti e tutto, contro quel sistema che da sempre comanda, che non ha mai pensato di mollare neanche un secondo, perché è così che si vince, è così che si provano le vere emozioni e non sono quelle passeggere, quelle che durano un quarto d’ora, queste sono quelle sentite, quelle da far accapponare la pelle e far tremare le gambe.

Il gol di Koulì

Proprio così è andata domenica 22 aprile. Una partita che è rimasta in bilico per quasi 89 minuti. Qualcosa si sentiva nell’aria, nella mia testa nulla mi diceva “è finita rassegnati”, forse anche perché questa squadra mi ha sempre insegnato a crederci, fino alla fine. Ho guardato il cielo, ho guardato quel cielo così scuro prima di quel calcio d’angolo, con le mani incrociate sopra la testa, ho chiuso gli occhi e ho detto “ti prego”, come se qualcuno da lassù mi potesse dare una mano per crederci ancora, per non buttarmi giù e continuare a cantare.

Quel “ale Napoli ale” che ha accompagnato il calcio d’angolo, quell’attimo di silenzio quando la palla ha attraversato l’area di rigore… ed è entrata, è entrata, è entrata! Non so cosa ho fatto, non so chi ho abbracciato, non so chi avevo in parte, so solo che dopo un urlo liberatorio, ho pianto, pianto, mi sono accovacciata a terra e ho iniziato a dire “grazie”. Le persone intorno a me che mi guardavano mentre piangevo e mi rincuoravano con un sorriso e una carezza.

È finita

Tremavo, mi sono cedute le gambe e sono cascata a terra, poi mi sono rialzata e ho abbracciato mio padre, colui che mi ha fatto il regalo più bello facendomi vivere questa esperienza. Un’ansia improvvisa ha preso poi il posto di quella gioia incontenibile. Tre minuti interminabili. Un pianto che è continuato fino alla fine della partita. Non ci crederete mai, ma io non so cosa sia successo in quei minuti, ho assistito di spalle con il signore in parte che ogni dieci secondi mi ricordava il tempo che restava.

Intanto mi guardavo intorno: gli occhi lucidi della gente, i lunghi sospiri, gli urli di carica, i sorrisi di rassicurazione, le espressioni che mi facevano capire quando era il momento di preoccuparsi oppure il momento in cui stare calma. “Ultimi dieci secondi” una voce che avevo percepito di sfuggita, travolta dai miei pensieri e dalle mie imprecazioni, ma che avevo inteso in modo forte e chiaro. Mi giro, la Juve attacca, ultima azione, fuorigioco. Era finita, era finita. Piano piano me ne rendevo conto, ma non riuscivo a capacitarmene. Rimessa dal fondo di Pepe, il tempo di due passaggi e l’arbitro fischia. È FINITA.

Quella rincorsa dei giocatori verso di noi, quell’esultanza rabbiosa, quel loro urlo liberatorio. Un peso che ci si è tolto dalle spalle, un macigno che ostacolava il percorso. Un “grazie uagliu“ urlato da tutti, quel “Napoli torna campione” che si è innalzato nella notte di Torino. Perché adesso più che mai Napoli merita e ha bisogno di ottenere quello che le spetta.

Grazie

Quel “grazie” che non si meritano solo i ragazzi per la grande impresa che hanno fatto, ma che ci meritiamo anche noi, noi tifosi. Un mio “grazie” a voi che come me non avete mai abbandonato la squadra; che anche quando mi veniva voglia di spegnere la televisione o di non guardare più la partita e starmene seduta sul sediolino del San Paolo col broncio, mi ripetevo di non farlo, perché io la mia squadra non la lascio mai sola. Mai.

Quell’urlo.. ne vogliamo parlare? Un urlo che diceva “si, ci siamo anche noi. E co’ cazz che adesso molliamo”, l’urlo di un popolo, di una città intera che ha bisogno di una rivalsa, l’urlo di bambini, ragazzi, adulti e anziani.  Il nostro non è amore per il calcio, la nostra è malattia. Io sono malata, ma non di calcio, del Napoli, perché solo il Napoli è stato capace di regalarmi anche se per alcuni saranno insignificanti, belle e indimenticabili emozioni.  Il Napoli, ma soprattutto Napoli se lo merita.

#20maggio2018
Io ci credo!

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