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Giancarlo Mazzacurati e la sua idea di Napoli

A ventuno anni dalla morte, Raimondo Di Maio ricorda Mazzacurati con la sua prefazione al libro “Le mani dentro la città”.

Giancarlo Mazzacurati e la sua idea di Napoli
Giancarlo Mazzacurati

Il 2 agosto 1995 ci lasciava uno dei più straordinari maestri della mia generazione, Giancarlo Mazzacurati.

Un non napoletano in maschera, indimenticabili gli stralci che interpolava in una lezione su Bembo e in una riflessione su Svevo o in una superba analisi della lingua di Gadda, ingegnere dell’esistenza al par di lui…

L’ho sentito magnificare di Aldo Manuzio e mostrare al pubblico interdetto un’Aldina. Allora avevo già alta la febbre dei libri.

Vorrei ricordarlo attraverso un testo non molto noto [sto copiando, non molto abilmente, un testo postato su Facebook da Francesco de Cristofaro, docente di Letteratura Comparate alla Federico II, già l’anno passato] la sua prefazione al libro d’un altro indimenticato studioso e professore, Vittorio Russo. Non si tratta di uno scritto scientifico, ma di una riflessione, profonda e dalla prosa finissima, su Napoli, la città in cui Mazzacurati – di origini emiliane e nato a Padova – si formò e insegnò fino al 1991.

Le mani dentro la città

(dalla Prefazione di G. Mazzacurati a V. Russo, L’altro scrittoio. Da / dentro / per la città, Napoli, Liguori, 1987).

Amici stranieri che non sono ancora discesi fin qui mi chiedono talvolta se Napoli è più bella di Marsiglia o di Barcellona, le due metropoli mediterranee che, nelle guide turistiche, le somigliano di più. È una domanda che mi lascia sempre interdetto, lì per lì, perché occorrerebbe spiegare tante cose che le guide turistiche non dicono; e occorrerebbe spiegare che la Verneinung (o, diciamo banalmente, la Negazione che afferma) qui è stata escogitata molto prima di Freud, almeno da Sannazaro in poi, per rimuovere la paura dell’incesto ed esprimere un difficile rapporto d’amore con la città.

Così decido quasi sempre di rispondere che no, che in quanto città Napoli è anzi sempre più brutta e indesiderabile. Poi comincio una delle solite requisitorie contro il fracasso aggrovigliato dei giorni, il vuoto inquietante e cimiteriale delle notti, contro la classe dirigente più indecente e autolesionistica che città civile abbia mai avuto in sorte, contro uno stato che lascia a decine di migliaia di persone soltanto una vita di frodo ed a poche centinaia consente di perpetuare una vita di frode. Faccio e dico di tutto, per convincerli che di ogni passato mito non c’è più neanche il seme, che ci siamo divorati anche i fondali e le quinte di ogni possibile Arcadia, che perfino il selciato delle strade e i volti delle case sembrano ormai malati di lebbra e di lupus. Poi mi prendo a specchio e, per portare fino in fondo la recita consueta, mi censuro, mi derido, mi denigro sullo sfondo della città per non aver l’aria del solito calvinista irrigidito nel proprio moralismo astratto.

Qualcuno però, malgrado credenziali così poco rassicuranti, ci capita lo stesso, prima o poi; e dopo mi dà del bugiardo, con mia grande soddisfazione. Qualcosa che noi non cogliamo più, per troppi rovesci subiti e troppi rancori covati, gli altri (i più sensibili e aperti) sembrano sentirla ancora: qui, ad esempio, non avviene che gli sguardi, dalla folla, ti trapassino senza vederti; o che la competizione produttiva assorba e rigetti masse impersonali vetrificate, col ritmo di uno stantuffo automatico. La città poi, quando la lasciamo un po’ sola per andare a brulicare altrove, in certe domeniche d’estate ha ancora, qua e là, una sua nobiltà malinconica; e gli occhi che possono rialzarsi sopra la corrida quotidiana tornano a vedere, tra le rovine dell’incuria e gli orrori delle speculazioni, scorci che sembravano inventati dai coloristi ingenui del secolo scorso. Questo non l’avevo raccontato, un po’ per pudore, un po’ perché ti chiedi sempre se quelle rare visioni non siano fate morgane e se quegli uomini più blandi e condiscendenti del pubblico non siano soltanto la rappresentazione un po’ rassegnata e indolente del cinismo che divora ogni costruzione civile, ogni amor proprio, in un lago mucillaginoso di astuzie, di laisser-aller, di negligenze. Invece, chi cattura una di quelle visioni, dopo mi dà, come dicevo, del bugiardo; con mia gran soddisfazione.

Forse vorremmo appunto questo: spengere tutte le piccole illusioni (i ridicoli «rinascimenti» progettati tra stucchi neoclassici e redazioni compiacenti), biffare tutte cartoline col pino, stracciare con le nostre mani tutte le oleografie di scugnizzi vivaci, di guizzanti pescatori, di guappi onorati, di popolane allegre, di pulcinelli famelici, velare il sole, cancellare il mare, come di fatto sono stati velati e cancellati, stingere insomma tutta la scenografia da avanspettacolo e i suoi residui mentali, per conservare la grande illusione di una ben altra realtà possibile sotto ed oltre quel pittoresco di cui abbiamo saturato la nostra immagine nel mondo; e che infine ci ha tradito, saturato a nostra volta, come un autoinganno protratto troppo a lungo o la maschera patetica di un carnevale mai goduto.

Questa maschera, com’è ormai noto, l’hanno sempre celebrata, prodotta e consumata i nemici della grande città europea che nasconde i suoi simboli pudichi, le sue biblioteche, il suo stile, la sua vita etica nelle pieghe di questo gran corpo matronale e sciancato, retorico e aggressivo, sfrontato e querulo, ignobilmente compiaciuto di sé, che esibisce e svende piaghe altrui per qualche elemosina da serrare nelle proprie stupide casseforti, dopo aver pagato ignobili mediazioni; i nemici di quella Napoli parallela di borghesi esiliati dalla propria classe, di operai ed anche di popolo minuto, che ha voce asciutta, richieste elementari altrove ed ardue qui. In questa Napoli (mentre nell’altra che fa rumore e cronaca si ricatta, si violenta, si scambia ogni progetto e speranza per pochi danari) ci si interroga ancora oggi, coi più diversi linguaggi, sulla natura della ferita o della malattia collettiva che un giorno non identificabile, per ragioni mai del tutto decifrate, distaccò la città dal suo ruolo originario, poi dal suo stesso territorio naturale, dal continente che aveva eletto e che l’aveva eletta tra le sue perle, fin dal lontano ’200. Su quella ferita di radice invisibile e di effetti fin troppo visibili si interroga nel suo insieme il ceto cosiddetto «intellettuale» (mai, come qui, diviso e incomunicante, per lo più, con quella «classe dirigente» di cui altrove fa parte); ma su di lei, sulle fitte dolorose che manda, sugli sbalzi d’umore e sulle infezioni che produce, si interroga a modo suo anche l’uomo della strada, continuamente. Forse non c’è città al mondo che parli tanto (e tanto male) di sé: frugarsi, investigarsi, rimpiangersi, condannarsi è quasi una topica fissa della conversazione, frequente come le osservazioni sul clima, in Inghilterra. Segnale superficiale di un problema profondo e reale che avvolge, spesso soffoca la vita, anche quel lamento rituale è alla fine una parola d’amore insoddisfatta, un’aggressione verbale che sottolinea attese inappagate, quasi come un’autofustigazione tra vittime che sanno d’essere in parte anche complici, per quanto involontari; e perciò è una denuncia che attende e sogna paradossalmente d’essere smentita.

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