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In Brasile con Max Riccio: il samba, la picanha, la farofa e un pareggio che lascia l’amaro in bocca

In Brasile con Max Riccio: il samba, la picanha, la farofa e un pareggio che lascia l’amaro in bocca

La prima cosa che ci tiene a chiarire è che si dice “il samba”, non “la samba”. Ne fa una questione di principio. Poi, mi porta a spasso per il Brasile con la sola forza delle parole: biglietto gratuito, un viaggio unico, che coinvolge testa, anima e papille gustative. Nato in via Salvator Rosa e cresciuto al Vomero, in zona Collana, nel 2006 Max Riccio è emigrato in Brasile: un anno a Rio, cinque e mezzo a São Paulo, infine è arrivato a Niteròi, 500mila abitanti e un ponte sull’oceano lungo 13 chilometri che la collega a Rio. Vive in Parque da Cidade, da cui, dice, «si gode la più spettacolare vista di Rio de Janeiro e della Baia di Guanabara». A Rio, si trova «per amore e per scelta di vita»: 54 anni, sposato civilmente con Glàucia (e con un figlio di quasi 25 anni in Italia),  dopo aver lavorato per anni nella vendita di protesi mammarie, è entrato in contatto con un’azienda brasiliana leader mondiale nel settore: «Hanno creduto in me, per questo sono qui».

Innanzitutto mi invita ad abbandonare l’immagine banale del Brasile terra di samba, sole e mare. «Il Brasile é un paese continentale con più di duecento milioni di abitanti, con una varietà umana, culturale, religiosa, etnica, gastronomica e climatica immensa. Non tutti lo conoscono per quello che realmente è: il Nord é la regione dell’Amazzonia e della cultura india, dell’acqua e della diversità assoluta. Il Nordest é la regione delle spiagge infinite e delle acque cristalline, colonizzato da portoghesi, francesi e olandesi. Nel Centro-Est c’é la capitale, Brasilia, e ci sono i fazendeiros. Il Sudest é regione ricca: Rio de Janeiro, Belo Horizonte e soprattutto São Paulo, megalopoli cosmopolita di quasi venti milioni di abitanti. São Paulo meriterebbe un capitolo a parte: é New York, Cittá del Messico e Milano insieme; é il motore economico e culturale di tutta l’America Latina, accoglie tutti, non dorme mai, offre mille opportunità; è, allo stesso tempo, mostruosa e dolce. Una selva di grattacieli dove però sorge il grande Parque de Ibirapuera e dove volano piccoli pappagalli (maritacas) e altri uccellini colorati come Sabiá, Picchi e Bem-te-vi. A differenza di Rio, non ci sono favelas nei confini urbani di São Paulo, sono fuori dalla cinta urbana. Il Sud (Florianópolis, Porto Alegre e Curitiba), poi, é la regione più europea, anche climaticamente, popolata da Italiani, tedeschi e giapponesi”.

Sono già stordita dal viaggio nella patria di Senna, Zico, Careca e Sòcrates. Max ma mi dà giusto il tempo di tirare il fiato e continua a parlare del Cristo Redentor e del Pan di Zucchero, di Copabana e Ipanema, ma anche della movida notturna nel quartiere della Lapa, al centro di Rio, con decine di locali, bar e ristoranti con musica dal vivo. Elenca le spiagge meno battute dai turisti: Grumari, Camboinhas e Itacoatiara. Racconta della città imperiale di Petròpolis, a un’ora e mezzo di auto da Rio, e di Búzios, perfetta «per chi ama le notti agitate e le discoteche» e di Paraty, adatta a chi apprezza l’arte, l’artigianato, le strade lastricate di pietra bianca e l’architettura coloniale.

Descrive Rio come una città con mille contraddizioni sociali ed economiche, tipiche dell’America Latina, simile per tanti versi a Napoli: «Come a Napoli il Pallonetto sta alle spalle del lungomare della lussuosa via Partenope, a Rio regioni nobili e regioni degradate coesistono fianco a fianco. Esiste un problema di sicurezza, certo, ma non più di quanto esista a Napoli, Genova, Palermo, Marsiglia o New York. Stiamo parlando di una cittá di otto milioni di abitanti dove il traffico automobilistico é intenso e spesso fermo, ma molto piú ordinato e disciplinato di quello napoletano».

Infine, Max spalanca le mie papille gustative: «Qui si mangia la carne in churrascaria (alla griglia), la famosa Picanha e si beve birra (cerveja). Ci sono ottimi ristoranti di classe, carissimi. La cucina tipica é riso, fagioli, carne e farina di mandioca (farofa). C’è frutta tropicale di tutti i tipi».

È netto nel rispondere che non tornerebbe a vivere a Napoli, che definisce «calda, triste e allegra»: gli mancano il figlio, la sorella, la mozzarella di bufala e la graffa di Edenlandia, ma il suo posto nel mondo è in Brasile. Non frequenta gli italiani di Rio, si sente ‘brasileiro’: «A Rio ci sono pochi italiani, chirurghi, managers di multinazionali, ristoratori, imprenditori edili, ma non é mai scattata quella volontà di mantenere relazioni. E poi le distanze sono considerevoli».

Il contatto con la sua terra d’origine è nelle mani del Napoli, una passione antica: «Mi commuovo guardando gli spalti del San Paolo pieni di gente che canta ‘‘O surdato ‘nnammurato’».

È l’unico tifoso esule intervistato finora che non ha esitazioni su come finirà il campionato, nessuna paura nel dirlo: «Il Napoli vince quella cosa che si cuce sulla maglia, poi la Rubentus e l’Inter».

A Niterò sono le 15, fuori ci sono 35 gradi. Max è seduto sul sofà, indossa solo un bermuda. Guarda la partita su FoxSports perché preferisce i commenti imparziali in portoghese «alla cronaca moscia della Rai». Si lamenta della scarsa velocità, sostiene che la Roma «se la fa sotto», che ci basta fare il primo gol per andare dritti al risultato. Elogia Koulibaly e aggiunge che se lo incontrasse dietro l’angolo di notte se la darebbe a gambe. Suda, impreca, fuma sigarette per ammazzare la tensione, invoca Mertens dall’inizio alla fine. Il pareggio finale lo distrugge: «Era una partita da vincere!». È arrabbiato: «Mi sento una schifezza. E che bbuò fa. Ma sempre forza Napoli».

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