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L’ultimo rifugio degli anti-modernisti di Napoli si chiama umiltà. Che per fortuna non attecchisce dove c’è talento

L’ultimo rifugio degli anti-modernisti di Napoli si chiama umiltà. Che per fortuna non attecchisce dove c’è talento

Poiché poche settimane sono bastate a prendere coscienza del fatto che non esiste via di ritorno da quella che conduce, volenti o nolenti, alla internazionalizzazione del Napoli (“una squadra condannata a crescere”, aveva commentato da qualche parte Sconcerti, nella scorsa stagione), coloro che attendevano il ritorno al buon, sano, efficace, vincente provincialismo per rompere col passato recente e riabbracciare la tradizione, non si sono persi d’animo. E così, dalla scuola dei mai domi anti-modernisti partenopei si fa largo un interessante spin-off, una costola del nutrito gruppo degli amici dei veri sapori (calcistici e non) di una volta: i custodi della sacra virtù dell’umiltà.

Nel giro di pochi giorni, abbiamo letto delle doti taumaturgiche essenziali di sorella umiltà in ogni contesto possibile: il presidente, reduce da qualche esternazione di cui non si sentiva una improrogabile necessità, tiene a farci sapere che Sarri è umile ma tosto – un aggettivo, quest’ultimo, assai intrigante poiché può spaziare, come un jolly, da riferimenti al tono muscolare del mister fino alla inflessibilità dei suoi principi morali, passando per le sue doti di rapidissimo velocista. Umiltà e tostaggine costituiscono un connubio conturbante perché tra loro c’è il ma avversativo proprio di tutte le coppie sanguigne che si rispettino, quelle che raggiungono grandi traguardi ma capita che facciano volare i piatti in cucina. Un binomio rassicurante: state tranquilli, pare dirci De Laurentiis, Sarri guida il gruppo sulla base di sanissimi valori di una volta che non impone ex cathedra ma trasmette in un mistico rapporto di umiltà. C’è qualcosa di antico in queste parole, sembrano l’evoluzione necessaria della dottrina del lavoro, quasi come se il sudore – fisico, materiale, umidissimo – si fosse finalmente trasformato in spirito, trasfigurandosi nel paràclito calcistico: ieri avete visto il sudore e avete creduto, ma domani conoscerete l’umiltà, il sudore evaporato, un afflato che scende sullo spogliatoio come le lingue di fuoco pentecostali per riscaldare i giovani atleti azzurri. Beato chi, senza aver visto, crederà.

E ci sono già i primi convertiti. Si parte, ovviamente, dai più giovani. Come non ricordare il gesto sconsiderato di Insigne che non saluta la folla e impreca verso il cielo per quella sostituzione appena chiamata dall’umile panchina. Un giovane che, come scritto da tantissimi, non è ancora un campione vero perché nel suo animo a mancare è proprio l’umiltà, quello spirito guida – tipico di noi napoletani – che avrebbe dovuto fargli cedere il passo con lievità, lasciare il campo con quella letizia interiore di chi sa, in cuor suo, che siamo tutti fratelli con la stessa maglietta. La mancanza della medesima umiltà d’animo – quella che, dopo liberté, égalité, fraternité, in alcune zone del nord Italia i seguaci del profeta di Fusignano rinominarono in umilté – ha colpito il giovane Mertens, che segna e non esulta.

Ebbene sì, nonostante la rassicurazione del presidente circa la guida virtuosa del mister, hanno ragione i tantissimi tifosi e commentatori a temere tali pericolose insolenti derive. Il loro necessario grido censorio – che si è sentito in più occasioni al San Paolo sull’onda di ingenti bordate di fischi degni della migliore inquisizione (anti)spagnola – suggerisce anche qualche indizio circa i motivi alla base della grande crisi di vocazioni religiose che si registra nella nostra città, negli ultimi anni. La nostra terra, infatti, non pare proprio lesinare loquacissimi moralizzatori di chiaro stampo puritano ma, per qualche oscura ragione, questi predicatori, invece di seguire in modo completo il loro pressante richiamo di fede, abortiscono in itinere terminando tutti nel misterioso status di miez prevet. Qualcosa s’inceppa e rimangono col colpo in canna.

Eppure. La storia dell’arte del sud del mondo – di cui noi siamo un piccolo rigo – insegna, nelle sue lezioni iniziali, che il primo nemico del talento che scalcia per vincere e affermarsi è proprio l’umiltà – che deriva da un termine che indica la terra di cui è composto il suolo dal quale il talento vuole librarsi a tempo indeterminato. L’uomo o la donna che pretendono di diventare campioni questa condizione dovranno strapparla al destino con il lavoro, certo, ma senza mai smarrire la certezza di essere più di quanto si è nel presente, sentendo l’impellente obbligo morale di dimostrare al mondo questa propria superiorità. Che, tutto considerato, è la più accademica definizione del contrario di umiltà. Il talento accetterà di fare un passo indietro solo se sarà chiara in lui la portata utilitaristica di questo gesto – se esso, cioè, potrà ragionevolmente garantirgli due passi in avanti in un futuro sufficientemente prossimo. In caso contrario, non retrocederà mai.

Nelle dispense delle prime lezioni di “sud del mondo” (quello cui gli integerrimi predicatori si dicono orgogliosi di appartenere, ovviamente) c’è una canzone blues scritta da Billie Holiday, e cantata da una sfilza interminabile di interpreti, il cui titolo emblematico è God Bless the Child. Le signore e i signori del blues dei primi anni 40 avevano scarsa conoscenza di smartphone e social media, ma riuscivano a racimolare in pochi anni della loro esistenza più vite di quelle che noi riusciamo a collezionare in un secolo. Perché erano del sud, appunto, delle mani stanche ma gli occhi limpidi per i quali si lottava o si moriva. E forte di questa testimonianza esistenziale Billie incastona una verità evangelica molto sottaciuta (dai predicatori di ogni tempo) nelle prime due strofe di questa canzone:

A coloro che hanno sarà dato / A coloro che non hanno sarà tolto (anche quel poco che hanno) / La Bibbia dice così e fa ancora notizia / Mamma forse ha, Papà forse ha /Ma Dio benedica il bambino che ha solo se stesso.

That’s got his own”. Che ha di che vivere, e che se lo procura, che ha la sua testa dura, che avanza a strattoni dal passato, che sa camminare sull’erba torvo come un toro che pretende di vincere, che impreca se sostituito, temendo di poter finire tra quelli che hanno poco, poveri e disperati, cui alla fine verrà sottratto tutto, in un ultimo ineluttabile gesto della disciplina della terra. È un testo quasi disperato che sembra scagliare gli uomini soli sulla faccia della terra. Ma è questa la paura che muove un talento: quella di rimanere soli e tra i poveri.

Scandalizzerà forse le anime belle, ma nessuno di quegli undici in campo, e di quegli altri dieci e passa fuori dal rettangolo di gioco, e di quei tecnici e preparatori e massaggiatori seduti in panchina, insomma nessuno di questi – né Sarri, con buona pace di De Laurentiis, né Insigne, né Mertens – ha un solo timido barlume di umiltà dentro, di quel sentimento che spinge a spegnerti ed eclissarti progressivamente per far nascere un uomo nel prossimo, seguendo la delicata disciplina che è propria dei maestri. Ed è il principale motivo per cui i talenti enormi assai raramente sono riusciti a diventare grandi pedagoghi, poiché anche in età avanzata l’ambizione di salire sulla testa degli altri morde come un demone, fino a rimanere l’unico demone a tenerti in vita.

E poi, insomma. A vuje che ve piace, ‘a musica o ‘o fummo? A noi, come a Michele Giuffrida, in arte Lello Arena, ce piace ‘a musica.
Raniero Virgilio

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