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Un terrone nel Nordest ai tempi di Baggio ai Mondiali del 94

Un terrone nel Nordest ai tempi di Baggio ai Mondiali del 94

Uno strano uomo attraversa una stradina di campagna a bordo della sua Ritmo. All’improvviso si ferma in mezzo al nulla, scruta il panorama assaporando il silenzio e la pace che lo circondano, prende con sé il suo Paroliere, un rotolo di carta igienica, scende dall’auto, si piazza dietro a un platano e… comincia a defecare.

Basterebbero le prime righe di questo romanzo a incuriosire il più avido dei lettori, se non fosse che è proprio nel proseguo che “Piccola osteria senza parole”, di Massimo Cuomo (Edizioni e/o), trascina in un mondo lievissimo, fatto di strani quanto affascinanti personaggi, lasciando, alla fine, un senso di delicatezza che solo pagine dal sapore antico sanno donare.

È il luglio 1994 quando Salvatore Maria Tempesta, straniero, meridionale, arriva a Scovazze, un piccolo paesino immaginario al confine tra Veneto e Friuli. Non si tratta, per lui, di una tappa casuale: il “terrone”, come ben presto sarà identificato dagli abitanti del posto, è in cerca di un campanile ben preciso, quello della foto tagliata a metà che porta sempre con sé, davanti al quale è ritratta una misteriosa donna.

È l’estate dei Mondiali in Usa e gli abitanti di Scovazze sono impegnati a seguire le partite e le maestose giocate di Roberto Baggio grazie alla televisione sempre accesa del Punto Gilda, l’unica osteria del paese, gestito dalla procace Gilda, appena diventata vedova.

Nessuno vuole distrazioni né disturbo in questa locanda dove tutto ruota attorno ai tavoli da briscola e alle slot machine ma Salvatore Tempesta, che beve solo Lemonsoda e custodisce un Paroliere come fosse un figlio, turba la placida quotidianità del paese. “El teròn porta sfiga”, sarà la sentenza degli avventori dell’osteria quando Tempesta arriva al Punto Gilda, di venerdì 17, mentre si gioca Germania-Bolivia, giudizio confermato dopo la sconfitta dell’Italia contro l’Irlanda. Per tutto il romanzo si chiedono cosa sia venuto a fare, Tempesta, nel loro paese, senza che però nessuno gli faccia mai una domanda diretta. Lui intanto, uomo taciturno e di pochissime parole, si porta dietro questo gioco magico con cui le parole prendono forma davanti a tutti e che agli abitanti del paesino immerso nelle campagne cambierà la vita.

Un romanzo che racconta un Nordest abitato da bevitori, bestemmiatori, gente taciturna e anche un po’ rozza che però si lascia lentamente travolgere dai buoni sentimenti e dal mistero che avvolge le poche parole di Tempesta.

Poche parole, e tutte necessarie, anche quelle usate da Massimo Cuomo per raccontare il mondo di Scovazze, un posto dove “uno straniero lo riconosci al volo, anche perché non ne passano mai”, abitato da personaggi a loro modo straordinari: i fratelli Sorgon, che sanno tutto di agronomia e che parlano solo con bestemmie, Costantino Paneghèl, detto l’Avvocato, che si offre di aggiustare la macchina di Tempesta, sprofondata nel fango, Francesco Perini, alias Malattia, per la mania di attribuire soprannomi a tutti, Romeo Perissinotto, detto Carnera per la sua stazza, che salva Tempesta accompagnandolo ai margini del paese offrendogli una casa, Bepi Basso, che mangia sbrodolandosi i pantaloni di velluto e che porta il pannolone, o Bruno Borin, sempre intento a giocare alle slot machine.

Storie di amicizia, di amore, debolezza e diversità raccontate con un linguaggio semplice e lieve, nonostante l’ostico dialetto degli abitanti di Scovazze. Che, dal canto loro, entrano in contatto con il Paroliere di Tempesta e ne escono trasformati: questo semplice gioco penetra nella loro vita e li aiuta a raccontarla, tanto che alla fine torneranno ad utilizzare e ad ascoltare le parole, proprio grazie al laconico Tempesta. A poco a poco, il terrone imparerà che nel paese dove nessuno ha tanta voglia di chiacchierare i gesti possono valere tantissimo e anche lui inizierà “a parlare senza parlare”.

«Questa storia è stata in parte tradotta dal dialetto. E sarebbe dovuta essere piena zeppa di bestemmie – scrive nella prefazione a voce narrante, un ragazzo abituale frequentatore del bar, di cui non viene mai fatto il nome – Da queste parti gli spregi a Cristo sono respiri, virgole, parentesi. Ho preferito lasciarle all’immaginazione, anche perché il protagonista di questa storia giuro che non l’ho mai sentito tirare in mezzo il Signore. “Per quella faccenda delle nozze di Cana” ci spiegò un giorno. “Uno che trasforma l’acqua in vino merita rispetto”. Così disse, fra le altre cose, Salvatore Maria Tempesta. Lo disse sorseggiando una Lemonsoda, peraltro. Questa storia è soprattutto la sua storia».
Ilaria Puglia

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