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Calcio e violenza, il racconto della vedova Raciti: «La paura di avere un marito con la divisa»

Calcio e violenza, il racconto della vedova Raciti: «La paura di avere un marito con la divisa»

A pensarci bene, vengono i brividi nel constatare che a un incontro per promuovere la cultura dello sport e per approfondire il tema della violenza negli stadi, i protagonisti siano tutto sommato due reduci. Due protagonisti – loro malgrado – di una guerra che lascia vittime sul campo: La signora Marisa Raciti, vedova dell’ispettore Filippo, ucciso il 2 febbraio 2007, in occasione del derby Catania-Palermo; e Enzo Esposito, nella doppia veste di ricercatore sociale e di zio di Ciro, il ragazzo di Scampia che lo scorso 3 maggio è partito per andare ad assistere a Roma alla finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina e non è più tornato a casa.

È stata una mattina interessante e toccante quella organizzata a Napoli dai vertici del Viminale e dal Dipartimento di Scienze sociali della Federico II. Secondo appuntamento del progetto nazionale “Conoscere per migliorare”, una collaborazione tra forze di polizia e università per comprendere e quindi limitare il fenomeno “violenza negli stadi”. Perché è la comprensione del fenomeno che aiuta a risolvere il problema. Incontro non a caso previsto nella settimana che conduce a Napoli-Roma, in programma sabato alle 15 al San Paolo, la prima partita dopo l’uccisione di Ciro da parte di de Santis. Il Napolista ha seguito l’incontro e vi relazionerà con due pezzi: il primo dedicato alla vedova; il secondo alle parole dello zio di Ciro.

«Sono venuta qui, ho accettato volentieri di partecipare a quest’incontro – ha detto la signora Raciti – perché avverto questo clima di paura che purtroppo ben conosco». Qui comincia la lunga testimonianza della vedova che si è alzata in piedi per raccontare il rapporto con suo marito, la storia della loro unione. Di come si fossero conosciuti ragazzini – lui era entrato in polizia ancor prima di diplomarsi – e di come fu lei a chiedergli di sposarlo in seguito a una malattia che la colpì. «Ricordo perfettamente il giorno in cui seppi di essere rimasta incinta. Era il 1991, all’epoca non c’erano telefonini. Tornai a casa, dove aspettavo mio marito per pranzo; ma lui non arrivava. Un’ora, due, il pomeriggio. Niente. Finché una telefonata, verso le nove di sera, mi avvisò che mio marito sarebbe rientrato a minuti. Era successo che un uomo aveva minacciato di uccidere la figlia; mio marito era di servizio, si trovava in zona e trascorse l’intero pomeriggio per far desistere dall’uomo. Ricordo quando rientrò a casa, era felice per quel che aveva fatto.

«In tutti questi anni ho voluto testimoniare chi era Filippo Raciti e che cosa volesse dire vivere con l’ansia di avere un marito in divisa. Ricordo ancora la sensazione che provai quando tornò a casa una sera dopo essere stato ricoperto di insulti e palloncini di pipì per tutto il pomeriggio allo stadio. Pensai al perché dovesse subire tutto questo che neanche lo conoscevano. Ricordo la sera del due febbraio del 2007, a Catania si viveva un clima d’attesa molto simile a quello che respirate voi qui per Napoli-Roma. Da noi c’era anche la festa di Sant’Agata. Ricordo che lo accompagnai alla fermata. Dopo quello che era successo allo stadio con i palloncini pieni di pipì, pensai che forse sarebbe tornato come l’altra volta, o ferito. Non avrei mai immaginato, però, che non sarebbe tornato più.

«Sapemmo quel che era successo guardando il telegiornale. Scendemmo a Catania e rimasi scioccata, c’era un clima di guerra. La chiamano guerriglia, ma per me era guerra. Pensai ancora: “Lo sapevano chi era? Perché tutto questo odio?”. La violenza si manifesta in molti modi, può essere diretta e indiretta. Mio marito era un donatore di sangue; poi, negli ultimi tempi, aveva cominciato a donare piastrine dopo aver conosciuto un uomo che ne aveva bisogno. Era rammaricato perché era da un po’ che non ci andava. La violenza che ha colpito lui e noi, indirettamente ha colpito anche quelle persone cui lui faceva del bene con le sue donazioni. Avrei voluto almeno salvaguardare la sua ultima volontà, quella di donare gli organi; ma non mi fu permesso perché il corpo era sotto sequestro. 

«Ricordo che quella sera rimasero feriti un centinaio di agenti. Lui scortava il terzo pullman sui cinque dei tifosi del Palermo. Ricordo che feci una sola domanda: quanti feriti ci sono stati tra i passeggeri di quel pullman? Nessuno, mi risposero. Lui aveva fatto fino in fondo il suo dovere.

«La violenza non è finita quella sera. Poi è iniziato il calvario dei processi. Incredibile la violenza che ho incontrato. Fa paura questo clima. La violenza è inutile, distruttiva. Potrei raccontare cosa voglia dire continuare a vivere con i figli, subire e convivere l’ansia, i disagi, la sofferenza, il dolore, la cattiveria. Dopo tanti anni, mio figlio ha ripreso a giocare a pallone. Ma non a scuola calcio, per me è impossibile relazionarmi con gli altri genitori che vivono le partite come momenti di tensione».

Una testimonianza lunga, che ha colpito la platea. «Lei ci ha stesi», ha detto Antonello Velardi, caporedattore centrale del Mattino, moderatore dell’incontro. 

Dopo di lei, ha preso la parola Roberto Massucci, vicepresidente operativo dell’Osservatorio del Viminale sulla violenza negli stadi. «Non si può avere paura di un incontro di calcio, dobbiamo capirlo tutti; la polizia, da sola, non ce la può fare. Massucci ha sottolineato due grandi carenze del calcio italiano: «le strutture degradate, non ci sono le condizioni per garantire la sicurezza in questi impianti; e i rapporti ricattatori, beceri, clandestini che ancora esistono tra società e ultras. Non tutti gli ultras sono delinquenti ma al loro interno ci sono frange violente che vanno allontanate. Bisogna avere il coraggio di costruire relazioni con gli appassionati di calcio ed escludere i violenti». (1 / continua)
(max gallo)

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