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Difendere Maradona per la mano de Dios in terra juventina

Avevo già difeso Diego Maradona nel 1991 quando con un gruppo di intellettuali napoletani, tifosi per passione e non per professione, decidemmo di mettere da parte il nostro senso del pudore ed aprire una discussione pubblica sul mito di Diego Armando Maradona e sui 7 anni trascorsi a Napoli. Volevamo ristabilire la verità, sfidando la impopolarità, proprio nel momento più difficile della sua vita, dopo averlo visto scappare di notte, quasi come un ladro, mentre l’intero mondo mediatico, quello che si occupa di sport, ma non solo, declamava la sua requisitoria intrisa di comodo e strumentale moralismo. I corifei serventi del giorno prima saltati giù di corsa dal carro del vincitore l’avevano trasformato nel genio del male. Il TE DIEGUM rappresentò una appassionata e laica riflessione sulle regole, l’etica, la trasgressione, il mito, il genio, ma anche sulla smisurata ipocrisia che partendo dal mondo del calcio attraversa la nostra società. Un doveroso ringraziamento pubblico per quanto aveva fatto, realizzato da un gruppo di tifosi, avvocati difensori e quindi non imparziali, che però utilizzando argomentazioni serie e motivate gli volevano dare atto che con le sue magie aveva regalato emozioni uniche trasformando il calcio in puro godimento estetico ed era diventato, forse suo malgrado, mito, eroe e simbolo anche per quel goal di mano che consentì alla Argentina di vincere i Mondiali del 1986. Nel 1991, però, giocavo in casa e non in una terra da sempre juventina come accaduto giorni fa quando ho indossato la toga per difenderlo nel processo simulato organizzato nell’ambito di un festival di letteratura e diritto a Palmi, in Calabria. Confesso che ho provato una forte emozione, benché fosse solo una simulazione e nonostante gli oltre trent’anni di quotidiano impegno professionale che mi porto sulle spalle. Lo accusavano di aver segnato con la mano, nella partita contro l’Inghilterra ai Mondiali del 1986. L’aula della Corte di Assise del vecchio Tribunale era stracolma di gente, giovani studenti, giornalisti, avvocati, magistrati e curiosi. Si respirava però un clima prevenuto e diffidente nei confronti dell’imputato e del suo difensore tanto da farmi venire la tentazione di proporre una questione di legittima suspicione e spostare il processo altrove. Prima di me aveva svolto la sua requisitoria Flavio Tranquillo, giornalista Sky, grande esperto di basket, che con inaspettate capacità dialettiche ne aveva chiesto la condanna, addirittura per corruzione morale nei confronti delle giovani generazioni di sportivi. Le perentorie conclusioni erano sostenute dai soliti argomenti, per la verità un po’ da bacchettone, sull’esempio e sul doveroso rispetto delle regole e sono state accolte da una vera e propria ovazione dei presenti. Il genio non si può mai processare, così ho iniziato la mia arringa, cercando innanzitutto di contestualizzare l’episodio. Era il giorno 22 giugno 1986, allo stadio Azteca di Città del Messico si è giocata una partita che ha fatto la storia di questo sport tra Argentina e Inghilterra. Quattro anni prima i due paesi erano stati protagonisti di una guerra per il controllo delle Isole Falkland – Malvinas. Si erano mosse le navi da guerra, ci furono scontri con centinaia di caduti. Alla fine gli inglesi ribadirono la loro sovranità. Evidente il carico di tensioni e di significati extra-calcistici intorno all’evento. Alla fine del primo tempo il punteggio era 0 a 0, dopo qualche minuto dalla ripresa c’è un rimpallo che sta per finire tra le braccia del portiere inglese Shilton ma un guizzo e uno straordinario gioco di prestigio del giocatore più piccolo in campo, Diego Armando Maradona, consentono al numero 10 dell’Argentina di segnare portando via il pallone sotto il naso del portiere con la mano, sì con la mano! Quel fatto, invece di suscitare unanime deplorazione, ha poi acquisito uno straordinario valore simbolico, uno sfregio artistico, un baffo alla gioconda, un gesto che ci ricorda Ulisse per la sua capacità di menzogna e astuzia, anche perché qualche minuto dopo accadde un altro prodigio. Maradona non era più solo il capitano della nazionale argentina ma si era trasformato nel simbolo di ogni desiderio di riscatto. Un novello Spartaco, un Masaniello, l’uomo delle periferie povere di Buenos Aires diventa il predestinato che sfugge alla condanna della miseria, il grumo di ossa e sangue piovuto sul mondo per giocare al calcio e per dare una lezione agli avversari di una guerra. Un regalo straordinario a tutti gli appassionati di calcio. La poesia di un dribbling che partendo da centrocampo semina gli avversari come birilli ed entra in rete con la palla attaccata al piede. Un vero e proprio orgasmo collettivo senza dubbio il goal del secolo! Dopo la partita, fuori da ogni ipocrisia e con straordinaria e sagace prontezza, rispose a quelli che gli chiedevano se il goal fosse regolare: “un poco con la cabeza de Maradona un otro poco con la mano de Dios”. Certo il goal era da annullare perché violava una regola fondamentale del calcio, ma va anche detto che è difficile vedere un goal di mano così perfetto, che sembra non tradire quella regola ma quasi accarezzarla rendendola inefficace con la qualità del gesto. La trasgressione di una qualsiasi regola di diritto positivo, insomma, comporta sul piano giuridico la sopportazione della sanzione, una volta che la trasgressione venga rilevata. Laddove ciò non accada, però, la trasgressione non è passibile di processo perché ne residuerebbe solo una valutazione etica e morale ma non giuridica. Ben può, dunque, configurarsi un diritto naturale a trasgredire la regola di diritto positivo vigente. Fermo restando, però, che, ove la trasgressione sia rilevata, chi l’ha commessa sa che dovrà soggiacere alla sanzione prescritta. Confondere etica e diritto, in definitiva, è proprio degli ordinamenti totalitari, nei quali il diritto naturale del despota, la sua etica, si impone a tutti. Negli ordinamenti democratici le due aree restano, e devono restare, saldamente separate. La possibile trasgressione della regola, conoscendosi il rischio della sanzione, è in sostanza garanzia di libertà. La “mano de dios” rappresenta la testimonianza, ed è efficace metafora, della possibile trasgressione impunita: che è garanzia della libertà, perché vissuta nella piena consapevolezza del rischio di sopportare la eventuale sanzione prescritta. Del resto, ogni regola giuridica è posta per rendere possibile la convivenza, per servire gli uomini, non per renderli schiavi. Quando si avverte che la norma tradisce il suo scopo, si può eticamente accettare la sua trasgressione. Qualunque disapplicazione intelligente di una regola può rappresentare un esercizio virtuoso e non necessariamente un deprecabile vizio. Altrettanto può dirsi – come si intuisce – di un colpo di destrezza che trasgredisce la norma tentando di eludere la relativa sanzione, nella piena consapevolezza, però, del rischio di incorrervi. Da un punto di vista etico ci si dividerà sempre: chi approverà lo scopo per il quale si è tentata (con successo) la trasgressione la considererà virtuosa e commendevole; chi non lo approverà la considererà biasimevole e disonorevole. Per un argentino battere l’Inghilterra era “lo” scopo. Riuscirci anche attraverso una trasgressione realizzata in maniera capace di eludere la sanzione del diritto positivo vigente può perfettamente costituire la espressione di un diritto naturale “minoritario” che riesce per una volta ad “interrompere” il dominio incontrastato della odiosa maggioranza. Concludevo il mio intervento ribadendo che quando la violazione della regola rasenta la genialità per credibilità e destrezza ; quando la giustificazione pubblica di quel gesto è intelligente e non ipocrita e soprattutto quando si è capaci di risarcire immediatamente il danno, realizzando il più bel goal della storia del calcio, non si può condannare, ma neanche solo processare, il più leale calciatore mai esistito, perché la condanna rappresenterebbe solo una assurda ed ingiustificata sanzione morale. La freddezza che l’uditorio aveva riservato alla mia appassionata difesa non lasciava presagire un esito positivo. Dopo qualche minuto infatti il Giudice del processo, il dottor Antonio Salvati, brillante e preparato magistrato napoletano, ma soprattutto grande tifoso del Napoli, leggeva le motivazioni della sua articolata sentenza. Dopo originali e colte citazioni, che andavano da Soriano a Calvino, e una lunga disamina giuridica delle possibili soluzioni, Maradona veniva comunque riconosciuto colpevole per istigazione a disobbedire le leggi e il reato dichiarato prescritto per il decorso del tempo. L’ennesima ingiustizia per Diego, anche se solo simulata. Claudio Botti

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