Il madrileno di 53 anni Rafael Benitez Maudes, classe 1960, sei mesi più vecchio di Maradona, figlio dell’albergatore Francesco, tifoso dell’Atletico Madrid, e di Rosario, sostenitrice del Real Madrid, e secondo di tre figli, nato sotto il segno dell’Ariete, presenti il Sole, Mercurio e Venere, e prendendo da Mercurio alcuni aspetti negativi, è il tredicesimo allenatore straniero del Napoli, il primo spagnola sulla panchina azzurra.
Porta con sé un curriculum strepitoso: 754 partite da tecnico, 387 vittorie, 182 pareggi, 185 sconfitte con una percentuale di successi del 51,33 per cento. Da calciatore ha giocato in squadre minori, centrocampista d’assalto: 118 gol in 405 partite col Castilla, il Parla e il Linares. Una serie di infortuni lo esiliò dai campi di gioco.
Laureatosi in educazione fisica al Politecnico di Madrid, nell’anno in cui l’Italia di Bearzot vinceva il Mondiale in Spagna, Rafa Benitez insegnante in una palestra madrilena si innamorò di una allieva, Maria de Montserrat, e la sposò. Rafa non è uno che perde tempo. Hanno avuto due figlie: Claudia di 14 anni e Agata di 11. Della sua vita privata, di cui è gelosissimo, si sa poco.
Si è affermato alla guida del Valencia (162 partite, 89 vittorie, 41 pareggi, 32 sconfitte) e del Liverpool (342 partite, 190 vittorie, 74 pareggi, 78 sconfitte). Ha appena lasciato la panchina del Chelsea (48 partite, 28 vittorie, 10 pareggi, 10 sconfitte). E’ stato di passaggio nell’Inter nella stagione 2010-11 (26 partite, 13 vittorie, 6 pareggi, 7 sconfitte) dopo avere sfiorato le panchina della Juventus e della Sampdoria.
E’ un allenatore di nove trofei: due campionati di Spagna col Valencia; una Champions, una Coppa d’Inghilterra e una Supercoppa europea col Liverpool; una Europa League col Valencia (2004) e una col Chelsea (2013); una Supercoppa italiana e un Mondiale per club con l’Inter.
La storia del Napoli cominciò proprio con una serie di allenatori stranieri, tre austriaci e un inglese. Nel 1926, fondato da Giorgio Ascarelli il primo agosto di quell’anno, il Napoli ebbe nel viennese Fritz Kreutzer il primo mister della sua storia. Centromediano e allenatore, Kreutzer segnò il primo rigore azzurro.
Il Napoli fu un “bambino gracile” in quella sua prima apparizione sulla scena nazionale. Nel campionato 1926-27 non vinse neanche una partita e ne perse 17. Kreutzer, deluso, se ne tornò a Vienna.
Nel campionato successivo, ne prese il posto il connazionale Rolf Steiger, difensore e allenatore. Giunse a Napoli nel 1915 per giocare prima nell’Internazionale e poi nell’Internaples. Sulla panchina del Napoli, con Sallustro in squadra, Steiger conquistò un onorevole nono posto. Nel torneo 1928-29 (che non era ancora la serie A a girone unico) fu la volta di Otto Fischer, ancora un austriaco: ottavo posto e tanti saluti.
Con la nascita del girone unico (1929), Giorgio Ascarelli, il primo grande presidente azzurro, chiamò alla guida della squadra Willy Garbutt, tecnico inglese di prim’ordine, ex artigliere di Sua Maestà britannica, che aveva allenato per sette anni il Genoa vincendo uno scudetto.
Garbutt si presentò con uno dei suoi cappelli scuri di feltro, la pipa in bocca e altre due nel taschino della giacca. A capo scoperto, aveva capelli neri e lisci, tirati all’indietro con una netta scriminatura in mezzo, le orecchie a sventola. Era un appassionato di cavalli da corsa.
Mise a posto una squadra di scapestrati rivoluzionando i metodi di allenamento. Piantò una serie di paletti sul terreno di gioco che gli azzurri dovevano superare a zig-zag palla al piede. Appese il pallone a una forca tirandolo sempre più su con una fune perché tutti si abituassero a colpire di testa sempre più in alto. Costrinse quelli che usavano un solo piede per calciare a tenere scalzo il piede “buono” e con una scarpetta nell’altro dovevano colpire un pallone pesante.
Portava i giocatori a fare lunghe passeggiate e riempiva quaderni di appunti fittissimi sulle qualità e sui difetti di ogni calciatore oltre a disegni di schemi tattici. Si occupava di tutto e di tutti. Fissato sui “fondamentali”, chi sbagliava doveva offrire da bere a tutti.
Rimase nel Napoli sei anni (200 partite, 92 vittorie, 42 pareggi, 66 sconfitte) conquistando il terzo posto nel 1933 e nel 1934. Quando lasciò il Napoli, andò ad allenare il Bilbao. Tornò ad allenare il Milan e il Genoa.
Con l’entrata in guerra, Garbutt venne internato come tutti i cittadini stranieri. Viveva con la moglie e un figlio. Adottò una povera ragazza di Bagnoli Irpino, Concetta Ciletti. Perse la moglie sotto i bombardamenti a Terni. Quando tornò ad allenare il Genoa, si ruppe una gamba scendendo da un tram. Semiparalizzato, rientrò in Inghilterra nel 1951 stabilendosi a Leamington, assistito dalla figlia adottiva. Morì a 81 anni, nel 1964.
L’ungherese Carlo Csapkai prese il posto di Garbutt nel campionato 1935-36. Più che dal calcio, era attratto dalle ballerine dell’Alcazar, un night napoletano sul lungomare. Il Napoli si classificò ottavo. Era stato assunto dal presidente Savarese, fu esonerato da Achille Lauro. Se ne andò dicendo: “Non ho capito nulla di Napoli”.
A metà del campionato 1937-38, l’ungherese Eugenio Payer sostituì Angelo Mattea. Il calcio danubiano era in grande splendore e Payer era un tecnico professionista. Portava un cappello nero e peloso e perciò Michelangelo Beato, massaggiatore storico del Napoli, mani d’acciaio, lo soprannominò “signor Piluscio”.
Payer guidò la squadra azzurra dalla quindicesima giornata a fine torneo e rimase per le prime quattordici giornate del campionato successivo. Saltò quando il Napoli fu sconfitto clamorosamente in casa dal Bologna (1-6), sostituito dal preparatore atletico Paolo Iodice . Payer guidò il Napoli in 30 partite con 7 vittorie, 14 pareggi e 9 sconfitte.
Fermi i campionati negli anni di guerra (1943-44 e 1944-45), si riprese con un torneo del centro-sud e un girone finale nel 1945-46. Dal Bologna arrivarono Michelone Andreolo, centromediano, micidiale sui calci di punizione, e Raffaele Sansone, mezz’ala destra, uruguayani che avevano strabiliato nel Bologna. Sansone fu l’allenatore giocando anche quattro partite con la maglia numero 8. Portò il Napoli al primo posto nel girone del centro-sud e al quinto nel girone finale che valse alla squadra azzurra, reduce dalla serie B, la promozione in serie A.
Sansone guidò il Napoli in 78 partite, vincendone 30, pareggiandone 20 e perdendone 28. Nell’estate del 1947, andò in Uruguay per ingaggiare giocatori. Tornò col terzino Rodrigo Candelas, col centromediano Angelo Cerilla, col centravanti Roberto La Paz, un mulatto alto due metri, bislacco e dribblomane. Un quarto giocatore, la mezz’ala Rodriguez, non giocò mai.
Alla fine di un tumultuoso incontro al Vomero contro il Vicenza (1-1) nel campionato 1947-48, senza vincere nessuna partita nelle prime sei giornate, Sansone fu licenziato. Per un gol annullato a Di Benedetti ci fu una fitta sassaiola e il Vomero fu squalificato.
Non possiamo proprio considerare argentino Bruno Pesaola, cuore azzurro, giunto a Napoli nel 1952, allontanandosene solo occasionalmente, in pratica 58 anni vissuti a Napoli, otto da giocatore, 240 partite, 27 gol. “Sono un napoletano nato occasionalmente a Buenos Aires”, dice, figlio di un emigrato marchigiano.
237 partite da allenatore, 96 vittorie, 82 pareggi, 59 sconfitte. Protagonista in panchina di due promozioni in serie A. Primo allenatore azzurro a vincere la Coppa Italia (1962), primo a centrare il secondo posto in campionato (1968). Vince la Coppa delle Alpi (1966) e il Torneo di Lega italo-inglese (1976).
Esordì in panchina sostituendo Fioravante Baldi alla 21^ giornata (serie B, 1961-62) conquistando la promozione che replica nella stagione 1964-65. Nell’ultimo anno, salva il Napoli dalla retrocessione in serie B per due punti (campionato 1982-83) dopo avere sostituito Giacomini che, in undici partite, aveva portato la squadra all’ultimo posto con 7 punti. Gioie e dolori per il petisso a Napoli. Un uomo dal cuore d’oro, azzurro e d’oro.
Il Napoli di Luis Vinicio fu una squadra furente. Il brasiliano di Belo Horizonte aveva giocato in maglia azzurra 152 partite segnando 69 gol. Cominciò da allenatore nella stagione 1973-74 portando la squadra al terzo posto e, l’anno dopo, al secondo a soli due punti dalla Juve campione. Ha diretto il Napoli in 144 partite: 56 vittorie, 60 pareggi, 28 confitte.
Nell’ultimo campionato (1979-80) sfuma l’acquisto di Paolo Rossi e Vinicio punta sull’accoppiata Damiani-Speggiorin. Dovevano segnare una trentina di gol, ne fecero appena cinque. Il Napoli scivolò in classifica e un gruppo di tifosi fece esplodere una bomba-carta al San Paolo sotto la panchina di Vinicio che si dimise. La squadra passò a Sormani per le ultime quattro partite. Angelo Benedicto Sormani, brasiliano, da giocatore definito il Pelè bianco, è stato così per breve tempo il decimo allenatore straniero del Napoli.
Bisogna arrivare a metà degli anni Novanta per ritrovare sulla panchina azzurra un tecnico straniero. Nel campionato 1994-95, Vincenzo Guerini durò solo sei partite e arrivò Vujadin Boskov che, con la Sampdoria, aveva vinto uno scudetto, una supercoppa italiana, la coppa delle coppe e aveva portato la formazione genovese sino alla finale della Coppa dei campioni 1992.
L’allenatore serbo giunse in ritardo per il primo allenamento a Soccavo e si automultò. Debuttò contro il Bari al San Paolo (3-0) da direttore tecnico con Canè in panchina. Rilasciò una delle sue celebri frasi: “Ho capito che avremmo vinto quando il Bari ha colpito il palo”. Chiamava “tagliatella” il portiere Taglialatela e “tarantella” il difensore Tarantino.
Disse: “Cannavaro, che fra un anno andrà in nazionale e varrà venti miliardi, e Pecchia, che è un diesel, non si toccano”. Di Benny Carbone disse: “Fa cose che faceva solo Maradona”. Prese a benvolere Carmelino Imbriani, giovane promessa beneventana cresciuto nelle giovanili azzurre (raccomandato da Mastella?), e quando Ferlaino gli propose l’acquisto di Pippo Inzaghi, che giocava nel Piacenza, Boskov rispose: “Ho Imbriani”. Carmelo è morto quest’anno, a Perugia. Aveva 37 anni, fatale la leucemia.
Boskov diresse il Napoli in 62 partite: 22 vittorie, 21 pareggi, 19 sconfitte. Cominciò alla grande il campionato 1995-96 e il sindaco Bassolino disse: “E’ bravo, gli farò allenare la città”. Poi la squadra calò. Guidava una Renault messagli a disposizione dalla società e diceva: “A Napoli sono tutti daltonici, rosso o verde al semaforo non fa differenza”. Se ne andò alla fine del campionato 1995-96.
Nel cielo azzurro Zdenek Zeman fu un lampo nero. Il Napoli, guidato da Novellino, era appena tornato in serie A nella stagione 2000-01, presidente Corbelli, azionista a metà con Ferlaino. Per il tecnico di Praga, rientrato in Italia dalla Turchia, dove aveva resistito solo tre mesi sulla panchina del Fenerbahce, la permanenza a Napoli durò appena sei partite (due pareggi e quattro sconfitte).
Il calendario non fu agevole opponendo subito la Juve e l’Inter alla squadra azzurra. Clamorosa fu la sconfitta al San Paolo contro il Bologna (1-5) alla terza giornata. Alla sesta, il Napoli pareggiò a Perugia (1-1). Fuori un gruppo di tifosi napoletani contestò duramente Zeman e la sera stessa, alla “Domenica sportiva”, Corbelli annunciò l’esonero dell’allenatore. Mai un tecnico era stato licenziato in tv.
Nel corso delle indagini del 2006 su calciopoli, Zeman disse che la sua assunzione e l’esonero a Napoli erano stati “preordinati”. Così finì con l’allenatore che in 17 anni ha allenato 22 squadre e nel 1989 creò il Foggia dei miracoli. Gli subentrò Mondonico che fallì la salvezza per un punto.
MIMMO CARRATELLI
Da Kreutzer a Benitez, 13 allenatori stranieri nel Napoli
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