Non era quella la serata giusta per il giubbotto nuovo “da stadio”, proprio no. Eppure avevo deciso di indossarlo l’altra sera per la partita perché mi ero spaventata tanto in mattinata: la pioggia che veniva giù scrosciando lanciava un’eco sonora che superava, a tratti, il chiacchiericcio vivace dei miei bambini a scuola. A un certo punto, dopo un tuono particolarmente forte, uno di loro guarda fuori dalla finestra e poi guarda me, e mi fa: “Stasera c’è Napoli-Udinese”. E aveva detto tutto, come Peppino faceva con il grande Totò. Il suo sguardo mi parlava, più delle sue parole. E oltre il rombo dei tuoni e gli scrosci di pioggia, diceva “Stasera tu sei lì, allo stadio, vero? Stasera, come sempre, tu ci sarai.”
Perché loro, i miei bambini, lo sanno. Sanno che io sono “malata”, di una malattia incurabile che si chiama Tifo Azzurro. Malattia congenita, malattia cronica, che non mi impedisce di lavorare e condurre una vita abbastanza “normale”, ma che comunque c’è, è lì, e traspare dai miei gesti, dalle parole, dalle emozioni che provo e che cerco di esprimere. E sempre più spesso, sempre più numerosi, loro, i miei bambini, condividono la mia passione che poi è il virus che diffonde questa malattia. Non è facile conviverci, a dir la verità.
La malattia, oggi più che mai, si contrae da piccoli e non ti passa più. C’è stato, sì, un momento in cui la diffusione si è arrestata: circa dieci anni fa si notò che le giovani generazioni erano risparmiate dal morbo… ma non fu un periodo felice. Eh sì, perché da questa malattia NON SI VUOLE guarire. E in quegli anni i padri guardavano ai figli nati sotto una diversa stella con sospetto e diffidenza, chiedendosi tra sé: “Ma com’è che lui è immune?”. Nata principalmente come malattia genetica trasmessa da padre a figlio maschio, si è diffusa dagli anni ‘80 in poi anche tra le donne, e la trasmissione non è stata più attribuita esclusivamente a fattori genetici. Ormai a Napoli, dove il morbo ha fatto strage proprio nel suo ceppo Azzurro, si può fare la conta di chi non si è ammalato… ne è affetta quasi tutta la città. Lo è sempre stata, a onor del vero, ma oggi il Tifo Azzurro si diffonde – dopo aver attraversato quel breve periodo di regressione (in cui i vaccini serie B e serie C sembrarono aver contenuto l’epidemia) – con grande rapidità, assumendo il carattere di una vera e propria pandemia.
I malati riconoscono gli altri malati (si contano sei milioni in tutto il mondo, cos’ ‘e pazz’!!!) dallo sguardo, che soprattutto in alcuni giorni della settimana (con l’approssimarsi dell’Evento) si fa più acceso, febbrile, o da piccoli segnali tipo domande in codice che ci si scambia quando ci si incontra: “Ma domani gioca…? Che dici, quello è forte, eh?”. Il tipico malato di Tifo Azzurro recita in silenzio rosari di nomi e soprannomi davanti a immagini di giovanotti in maglia azzurra e calzoncini bianchi, sfida gli elementi in occasione dell’Evento settimanale (la partita allo stadio), o si abbandona a biechi gesti apotropaici davanti al televisore, dove resta a seguire i giovanotti di cui sopra se allo stadio non ci va. Il paziente è disposto a perdere gran parte di una sua giornata in una fila chilometrica pur di assicurarsi un biglietto, si fa schedare, salassare economicamente, tartassare dai malati di altri ceppi di Tifo, (particolarmente virulento nonché maligno quello a strisce), si sgola a fischiare, cantare , inveire e sostenere, ovunque si trovi… da solo o in compagnia di altri malati come lui. Tutto questo per dire che sì, anch’io sono malata. Quelli che mi conoscono lo sanno, e sanno anche accorgersi di quando sono in piena crisi, o riconoscono i primi sintomi di un episodio particolarmente virulento. Del resto, soprattutto qui a Napoli, anche le persone immuni riconoscono i malati.
E Il bello è che, nonostante i sintomi siano più o meno gli stessi (con varianti alquanto creative, a dir la verità), e siano, come già detto, facilmente riconoscibili, la cura non è l’obiettivo primario della ricerca: dal Tifo Azzurro non si vuol guarire, al massimo si cerca un palliativo che riduca lo stress correlato al morbo. I vaccini di cui sopra avevano proprio lo stress come principale effetto collaterale. Alcuni pazienti arrivarono a guarire, ma nei più si diffondevano tristezza e sconforto, e alla malattia si sommava la depressione: terribile. Si tornò allora alla vitamina A, assunta in grande quantità e con buoni risultati. La tristezza diminuì, le endorfine aumentarono e lo stress sparì (almeno nella sua manifestazione peggiore). Il Tifo azzurro da allora è più forte che mai, secondo solo a raffreddore e influenza. Da questa malattia non vogliamo guarire.
Spesso, comunque, le crisi che comporta, necessitano di un intervento sanitario. Il primo soccorso, oggi come novant’anni fa (quando si manifestò per la prima volta), si presta mostrando al malato qualcosa di colore azzurro. Gli occhi del paziente si accendono di gioia, il cuore riprende a battere regolarmente, e se gli si fa pronunciare formule mediche tipo “omammamammamammasaiperchèmibatteilcorazòn” la pressione torna a salire e ritorna anche il sorriso. Certo, non per tutti funziona. Studi clinici, ad esempio, hanno dimostrato che la suddetta formula ha effetto sui pazienti dai trent’anni in su, mentre in quelli più giovani si manifesta una maggiore resistenza al palliativo. Per tutti però vale il farmaco principale: un biglietto per il San Paolo. Quello risolve qualsiasi crisi, dai malati cronici a quelli affetti dai primi stadi della malattia. Accende gli animi, dà fiato alle ugole, fa battere i cuori all’unisono e ridona il sorriso ai più.
Io, per esempio, mi curo con l’abbonamento. Certo, sono cure costose, contraggo debiti per potermele permettere, ma sto meglio. Mi sfogo, condivido il racconto dei miei sintomi con altri 1500 malati e alla fine dell’Evento sono quasi sempre più calma, che si vinca o si perda. Senza voce ma fuori dalla crisi… almeno fino al prossimo incontro. Certo, ci sono pure i malati terminali. Quelli che nel nome del Napoli si dichiarano non solo incurabili ma in fin di vita, e producono quantità industriali di pessimismo e negatività. Per loro non c’è scaramanzia, coro o vessillo che tenga, né risultato positivo che allevi la pena. Soffrono e basta, nati per soffrire, e si crogiolano nella sofferenza come i peggiori masochisti. Gli altri, quelli che non sono a questo stadio di gravità, soffrono e gioiscono insieme, nel nome del morbo comune. E trovano sollievo nel condividere le gioie come i dolori, nel cantare le lodi della passione comune, nel bardarsi d’azzurro come se andassero al carnevale di Rio, eterna scuola di samba e tango argentino, tarantelle e ritmi d’oltreoceano. Il canto, il ballo, la gioia e la tristezza, i cori, le chiacchiere, i riti e gli Eventi, vissuti assieme, rappresentano il nostro ricovero eterno in un gigantesco manicomio ribollente di allegria e passione, uniti dalla stessa malattia. Non per niente stadio e ospedale a Napoli si chiamano entrambi “San Paolo”…
Donatella Sapone